Piccoli marxisti crescono: le tesi anti-capitaliste nei manuali scolastici

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Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto di “A scuola di declino. La mentalità anticapitalista nei manuali scolastici” di  Andrea Atzeni, Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri.

Gli autori di questo volumetto sono tre professori, il primo del liceo e gli altri due universitari, che insegnano materie di carattere storico-filosofico, vale a dire proprio quelle in cui i pregiudizi sono più facili da inoculare. Le parole sono il denaro dei folli, diceva Thomas Hobbes, e noi siamo ricchissimi: maneggiamo parole di altri per professione e forse pure per vocazione.

Ma probabilmente proprio per questo crediamo che le idee abbiano delle conseguenze. Il lettore poco smaliziato potrebbe considerare le idee politiche ancillari rispetto alla costante della storia: la lotta per il potere. Ma resta il fatto che quelle sono un elemento essenziale di questa. E soprattutto non esiste alcun cambiamento politico rilevante nella storia umana che non abbia avuto bisogno di una qualche forma di legittimazione intellettuale. Ogni grande o piccolo mutamento si è nutrito di idee e ha provocato nuove riflessioni. Al punto che è impossibile sottovalutare il ruolo del pensiero nella storia.

I testi scolastici italiani vivono perlopiù in un mondo dorato e intendono portare gli studenti verso una comprensione dei meccanismi sociali e politici in senso socialista, nelle loro versioni dolci o dure, a seconda delle preferenze degli autori. I manuali sono davvero perfetti per costruire nel corso del tempo una percezione naturalmente anti-mercato. Come sostiene Tom Stoppard in La sponda dell’utopia, il mito «di una società perfetta dov’è possibile la quadratura del cerchio e l’abolizione di ogni conflitto» è chiaramente un inganno. E tuttavia, le operazioni classiche del marxismo non sono mai state quelle di costruire una cattedrale di pensiero con visioni di una società talmente bella e appetibile di fronte alla quale quella esistente non poteva durare un’ora di più. Al contrario, Marx dedica circa cinquemila pagine alla critica del capitalismo e non più di una decina a parlar di comunismo.

L’operazione intellettuale è proprio questa: criticare l’esistente nel passato e nel presente in modo continuo finché anche nella mente più refrattaria non si fanno strada solo due alternative che poi si riducono a una. Vale a dire o rovesciare i rapporti di produzione, o affidare le scelte non ai milioni di liberi individui che interagiscono liberamente nella società, ma a un gruppo di burocrati illuminati. In breve, affidare allo Stato la guida e la piena direzione di una società incapace di svilupparsi autonomamente. Intendiamoci, non tutti coloro che dovrebbero addestrare la gioventù di lingua italiana a riflettere criticamente sulla storia e la filosofia occidentale sono marxisti di varia estrazione, ma l’esaltazione acritica del “dispositivo politico della modernità” (lo Stato) e degli uomini che meglio ne hanno interpretato lo spirito è comunque il passatempo preferito degli estensori dei manuali.

Sappiamo bene che ritenere la libertà umana il più importante fine politico fa parte di un’antica tradizione ormai entrata in un declino inesorabile. E tuttavia, leggendo i libri scolastici di lingua italiana si potrebbe facilmente convincersi che questa tradizione di libertà non abbia avuto alcuna rilevanza negli ultimi venticinque secoli di storia dell’Occidente. Se il periodo da noi considerato copre quasi gli ultimi quarant’anni, questo è anche l’arco di tempo che vede un triste primato italico nel mondo: l’Italia è il Paese che è cresciuto meno sul pianeta (pare che solo lo Zimbabwe e il Venezuela abbiano fatto peggio). Sappiamo che è una cosa talmente accettata da non rientrare neanche nel dibattito politico. In ogni modo, le cause che hanno condotto una generazione e mezzo alla crescita zero sono tipicamente riconosciute nel peso dello Stato (tassazione altissima, regolamentazione folle, spesa pubblica fuori controllo), nella burocrazia incapace e invasiva, nella scarsa produttività del lavoro dovuta a una struttura industriale inadeguata (il capitalismo molecolare).

Crediamo di aver individuato quelle che sono le radici più profonde del nostro lento e inesorabile declino in termini di prosperità nella mentalità anticapitalista, che il grande economista austriaco Ludwig von Mises associava al risentimento intellettuale per le ambizioni frustrate, istillata nei giovani fin dalla più tenera età. Si tratta di cause ideologiche ben difficili da misurare, ma non per questo meno reali. Abbiamo documentato solo una piccola frazione di quei fumi ideologici che annebbiano le menti giovanili.

Quale volume di storia pubblicato in questo Paese non sorvola o minimizza i misfatti delle utopie criminali comuniste? Chi era al liceo negli anni Settanta ricorda perfettamente che, quando e se si arrivava alla storia contemporanea, tutti i manuali ci raccontavano che l’Unione Sovietica aveva ogni sacrosanto diritto di annettersi mezza Europa ed estendere il proprio glorioso sistema economico sociale anche a protezione delle sue ripetutamente violate frontiere. La dottrina del “socialismo in un solo Paese”, ma in espansione continua, era fatta propria da tutti gli storici “seri”, che non volevano narrare la storia come un insieme di fattarelli senza un filo conduttore.

Ma le cose sono davvero cambiate oggi? Ricercare la mentalità anticapitalistica nei libri di testo delle scuole italiane dà risultati veramente sconcertanti. In volumi pubblicati e scritti dopo il Duemila viene ammannita ai poveri giovani italofoni la fola del “liberismo selvaggio” come causa di tutti i mali del mondo. E non mancano manuali, anche recentissimi, nei quali viene semplicemente esaltata la comune maoista. Il fatto è che, perlopiù, gli intellettuali sono convinti che l’economia di mercato sia semplicemente un cancro e che il comunismo si sarà pur rivelato la cura Di Bella, ma resta comunque un tentativo di terapia rispetto al male assoluto. L’imputazione cambia e i rimedi si rivelano illusori, ma il mercato, l’Occidente e in primo luogo l’America sono sempre sul banco degli imputati. Gran parte degli intellettuali, allora, non riconosce i crimini comunisti perché li ritiene null’altro che un eccesso di legittima difesa di fronte al male in Terra, vale a dire il capitalismo e il libero mercato.

Politicamente la cosa è nota da decenni. A chi fu fascista si spalancarono (giustamente) due sole alternative: ammettere i propri errori o essere come minimo ghettizzato nel dibattito intellettuale. Di contro, chi è stato comunista ha avuto davanti due strade parimenti rispettabili: rivendicare tutto, “alla Luciano Canfora”, oppure chiedere e ottenere l’oblio e una tacita assoluzione sulle proprie passate farneticazioni. In breve, i fascisti hanno dovuto fare i conti col fascismo e i comunisti più che i conti si son fatti sconti. Le ragioni sono molteplici e assai dibattute, giacché il problema si ripresenta in forme diverse in tutto l’Occidente. In Italia si è sempre parlato di “egemonia culturale”, tattiche gramsciane, corteggiamento degli intellettuali da parte del partito comunista. Tutto vero, ma non basta. Il fatto è che il prodotto culturale “marxismo” era ed è un manufatto altamente sofisticato, imparagonabilmente più sottile dei rozzi regimi e degli uomini che lo hanno messo in pratica. Per smontarlo e liberare le prossime generazioni dai suoi cascami ideologici ci vuole ben più che l’improvviso crollo di un muro e qualche vaga parola d’ordine. Ci vorrebbe un movimento sia politico sia culturale disposto a puntare tutto sulla battaglia delle idee.

Occorrerebbe estrarre dal cilindro la merce più scarsa del mondo: intellettuali ben preparati a diffondere l’idea della legittimità morale, prima ancora che politica, del mercato. Proprio quello che manca in Italia.

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