Dal Foglio del 9 ottobre 2010
L’audio delle sue chiamate lo assolve, però che scherzi da Porro. Uno che d’estate, se gli va, gira a piedi nudi in redazione, perché fa caldo, perché sta comodo, perché è un romano felice a Milano che tiene i capelli flosci e la camicia délabré.
Uno che dice a un direttore esigente “e vabbè, ma tu leggi Shakespeare e io Dylan Dog” e poi cita Ayn Rand pure quando l’iperliberismo non c’entra. Uno che non ha mai nascosto di essere “un cazzaro cui piace cazzeggiare”, e tanto più si occupa della “scienza triste”, e cioè di economia, dice, tanto più il cazzeggio assurge a respiro essenziale della giornata pesante. Uno che quando deve fare un pezzo si prepara ma agli esordi di carriera spesso è arrivato al lavoro dritto dritto da una notte folle (ed ecco che faceva fruttare l’anno di studio post-laurea in America: uno sguardo al Wall Street Journal, un po’ di affabulazione, un’idea che viene fuori dal nulla nella riunione in corso).
Uno così, cioè il vicedirettore del Giornale Nicola Porro, è difficile vederlo dietro a una macchina del fango (non la pensa così Henry John Woodcock, il pm delle inchieste sensazione che spesso precipitano nel nulla). Tanto l’ha preso sul serio Woodcock, che Porro è finito indagato per presunte minacce a Emma Marcegaglia, sulla base di un sms e di una telefonata all’addetto stampa della suddetta in cui Porro, dice Porro, usa un tono evidentemente “cazzaro” (“sono desolato per il fatto che dovrò telefonare e messaggiare come un libro stampato”, ha poi scritto nella sua autodifesa sul Giornale).
Un po’ per celia un po’ per non morir: visto che oggi il Giornale promette quattro pagine di dossier sulla capa di Confindustria. E d’altronde Porro ha chiamato il proprio blog “Zuppa di Porro”, e non, chessò, “trader” o “insider”, come si confà a un tradizionale vicedirettore economia.
E quando, l’anno scorso, i fan di Marco Travaglio l’hanno ricoperto di post inviperiti per via di una sua battuta durante Annozero, Porro, che ad Annozero si è affermato come “volto sereno” del Giornale, ha trasecolato e ci ha riso su. E però oggi, in giro per Milano, deve scansare giovanotti insolenti rinvigoriti dalla comparsa di Woodcock – uno ieri l’ha avvicinato alla gastronomia Peck per dirgli: “Vergogna, sei pagato da Berlusconi” (Porro, basìto, ha risposto: “Ma se mi pago da solo pranzo e avvocato!”).
E insomma il cruccio maggiore, per Porro, è non poter più essere, oggi, il Porro che fu. Al tempo stesso nessuno crede che da oggi in poi Porro diventerà una grisaglia da fondo monetario. Perché comunque il Porro che fu scalpita, ed è quello che faceva scherzi e cadeva puntualmente nello scherzo telefonico dell’amico che fingeva di aver avuto problemi con la macchina prestatagli da Porro medesimo.
Per non parlare di quando Porro giocava a tennis con il collega Filippo Facci e pur di non dargli la soddisfazione della vittoria si appartava all’improvviso per una telefonata e (fingeva?) di dover correre in redazione.
Chissà se Porro è diventato Porro perché ha studiato al Massimo di Roma (stessa scuola di Mario Draghi, Gianni De Gennaro e Luca Cordero di Montezemolo). Fatto sta che Porro oggi dice agli amici che “forse è lì”, alla scuola gesuitica, che ha appreso “i fondamenti della cultura del dubbio”, frase che non si sa se attribuire alla vena seria o quella cazzara di Porro stesso.
Tra il serio e il cazzaro, comunque, Porro, giovane liberale di doviziosa famiglia pugliese del settore agroalimentare, finì a inizio anni Novanta all’Opinione (“giornalista per caso”, dice oggi), e poi al ministero degli Esteri con Antonio Martino. Furono giorni di grandi viaggi e incredibili sorprese: Arafat che, scambiandolo per il ministro Martino, lo abbraccia al suo posto; un vecchio principe siciliano, funzionario alla Farnesina, che si rifiuta di rilasciargli il passaporto di servizio per via delle sue scarpe sciatte; Martino che in Arabia Saudita gli fa attraversare una sala grande come un campo da calcio, sotto gli occhi di un plenipotenziario ieratico, solo per dirgli all’orecchio qualcosa come “stasera, per il summit, siamo messi male con gli alcolici, vai a vedere se è rimasta qualche boccetta di whisky dall’aereo”.
Fu un Bildungsroman durato lo spazio di una parentesi. Poi venne la Peugeot 105 senza targa anteriore con cui Porro si presentò alla Lucchini di Brescia (“tristezza infinita in una città senza donne”, disse allora agli amici) e, in extremis, una chiamata per un lavoro al Foglio a Milano, giunta mentre Porro si trovava in treno per andare a un appuntamento romantico al buio combinatogli dall’amico Giuseppe De Filippi, con cui più tardi organizzò il palinsesto della tv Cnf-Cnbc (si divertirono come pazzi e fecero assunzioni eccentriche per il notiziario di finanza: un ex metalmeccanico, un esperto di musica lirica e un bocconiano che si era rifiutato di lavorare in Mediobanca).
Sempre cazzeggiando in serietà, Porro passò al Giornale e rifiutò una chiamata alla Stampa, causa figlio in arrivo e matrimonio con una bella ragazza di professione stilista. Alla prole ha dato nomi antichi e signorili, Ferdinando e Violetta. Antica e signorile era pure la camicia da notte da duca del maniero che un amico – per caso suo ospite – una sera gli vide indossare con grande orgoglio, e va’ a capire se era per cazzeggiare oppure no.
Marianna Rizzini, Il Foglio 9 ottobre 2010