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Pirelli, come restare italiani con i capitali dei cinesi

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Si è scritto molto del fatto che la Pirelli sia finita in mano cinese. Tra poco si riquoterà in Borsa, a Milano. E sarà la più grande offerta (Ipo) europea. Ossigeno, per un mercato finanziario che ha pochi buoni pezzi industriali. Ma questo è un altro discorso.

Dopo la quotazione i cinesi avranno il 45% del capitale, poco più di quanto sarà il flottante, e quattro volte la quota dei soci storici italiani.

Marco Tronchetti Provera, che resterà l’amministratore del gruppo per i prossimi tre anni e che ha un golden power previsto negli accordi per trovare il suo successore, ha preteso e ottenuto che la Pirelli rimanesse alla Bicocca. Insomma che restasse milanese, italiana. E aggiungiamo noi «tronchettiana».

Lo statuto, la costituzione del gruppo, nei suoi principi generali ha bene impresso questo comandamento: senza il consenso del 90% degli azionisti (si badi bene non dell’assemblea) non è possibile trasferire la sede, le tecnologie, i marchi e le licenze fondamentali e forse nemmeno le piante.

Molte grandi imprese considerate italiane, Fca per non fare nomi, hanno sedi e tecnologie trasferite da tempo. Nulla contro di loro, è solo un fatto.

A ciò si aggiungono alcune previsioni di dettaglio, ma importanti: autonomia del management dagli azionisti e rafforzamento comitati di controllo e consiglio sindacale legato a best practice internazionali e dunque blindato. Inoltre, i comunicati della Bicocca (possiamo ancora scrivere così) annunciano la presenza di più di otto consiglieri indipendenti su 15 in consiglio.

Fuffa. L’indipendenza dei consiglieri è sempre un mistero gaudioso, a cui si può solo credere per fede e burocrazia.

Tirate le somme, Tronchetti ha messo in cassaforte l’italianità dell’azienda come nessuno è riuscito a fare.

In Italia ci sono molti marchi posseduti da grandi gruppi stranieri che qui continuano a produrre e prosperare nonostante l’esterovestizione (dalla San Pellegrino alla Bottega Veneta) e che sono rimasti tricolori perché banalmente non conveniva portarli all’estero. In campo industriale le cose sono diverse. E Tronchetti ha preteso e ottenuto di più.

Ma se tutto ciò che abbiamo appena scritto è vero, dobbiamo forse ritenere i cinesi dei matti, degli sprovveduti. Quando domanda e offerta, per un marginalista, insomma per un liberale, si incontrano, lo scambio conviene ad entrambe le parti.

Qual è la convenienza dei cinesi a comprare senza comandare? Questa forse era la vera domanda da porsi sull’affare Pirelli.

E qui le risposte sono due.

1) La prima riguarda il ritorno economico a breve. Credono nel business, da soli avevano dimensione ma non tecnologie e marchio, e dunque la combinazione renderà i cinesi più ricchi rispetto ad una corsa solitaria.

2) Ma il lato debole che Tronchetti ha individuato è un po’ più sofisticato e forse è il decisivo. In fondo ci aveva provato, senza successo, anche con i precedenti soci con cui si era fidanzato.

Come per il salotto della principessa di Guermantes i mobili sono chic, i pasticcini sono ottimi, la conversazione divertente e la vista è mozzafiato, ma il valore è la possibilità che ha l’ospite di potere raccontare, un minuto dopo la fine della serata, di esserci stato.

I cinesi sono fortissimi nel debito, comprano (con lo sguardo compiaciuto degli emittenti) come se non ci dovesse essere un domani. Sul mercato dell’equity (aziende, imprese) sono temuti, poco rispettati, hanno quote ridotte.

Il caso Pirelli racconta un’altra storia: quella di investitori industriali con cui si può dialogare secondo regole di governance occidentale. È il prezzo, caro, del biglietto che Tronchetti ha preteso e ottenuto, per tenerli a bordo di una delle poche multinazionali italiane. 

Nicola Porro, Il Giornale 9 settembre 2017

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