Politicamente corretto: inizia la rivolta degli intellettuali

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Quale sia il clima di intolleranza diffuso nella cultura americana attuale ne è prova l’appello sottoscritto da centocinquanta importanti uomini di cultura d’oltre Atlantico in queste ore e pubblicato dalla rivista Harper’s. Lo è soprattutto per alcuni aspetti a latere, in verità molto significativi. Ora che la cancel culture abbia raggiunto e oltrepassato i limiti che distinguono il mondo intellettuale di un paese libero da una cultura di regime, è a tutti evidente: licenziamenti, boicottaggi, messe all’indice, di chi solo osa mettere leggermente in discussione il conformismo moralistico-culturale in atto sono purtroppo all’ordine del giorno, e non solo in America ma in tutto l’Occidente.

Il buon senso, se non proprio la tolleranza, avrebbe imposto agli uomini di cultura di muoversi molto prima: unirsi e scendere in campo compatti alle prime avvisaglie di questo clima d’odio. Ma tant’è! Ben venga che allora che Margareth Atwood e Noam Chomsky, Salman Rushdie e J. K. Rowling (vittima recente di un assurdo ostracismo), fra gli altri, si siano finalmente svegliati. Festeggiamo, ma alcuni elementi non ci fanno affatto gioire. Prima di tutto, gli estensori del testo hanno dovuto usare mille accortezze, iniziando il loro manifesto con una excusatio non petita, cioè mostrando il loro certificato di “progressisti doc!”. E quindi giù con l’attacco al “populismo” di Donald Trump, al clima di intolleranza generato da una non meglio specificata “destra radicale”, alle “violenze della polizia” messe in luce dal caso di George Floyd, alle non meglio definite “ingiustizie sociali”. Che è un po’ come confondere le conseguenze di un fenomeno con la causa: probabilmente, per dirne una, Trump, ci piaccia o no come presidente, è stato eletto anche come reazione al clima illiberale generato nel Paese dal prevalere a tutti i livelli di una cultura estrema, banale e stupida quale del politically correct.

Fatto questo “atto dovuto”, gli estensori vanno poi diritto al punto che a loro interessa e a che noi ci fa festeggiare: purtroppo, scrivono, l’intolleranza si è infiltrata anche nelle nostre fila, ci si è dimenticati che solo un clima di libertà fa prosperare la cultura, il dibattito viene evitato e ci si protrae davanti al conformismo, censura e autocensura la fanno da padrone, per giunta “complessi temi politici” vengono sciolti in “cieche certezze moralistiche”. L’imputato, non citato, è chiaramente la correctness. Timorosi di avere osato tanto, gli autori dell’appello hanno poi utilizzato altri stratagemmi: hanno chiamato alla firma rappresentanti di tutte le “minoranze culturali”, mostrando in qualche modo di essere ancora succubi del modo di (s)ragionare dei “correttisti”: si firma e si è qualcuno non per quello che sé e si fa (in questo caso si scrive), ma per il gruppo di appartenenza a seconda che venga bollato come storicamente “discriminato” o no (lo stesso promotore Thomas Chatterton Williams, è uno scrittore afro-americano).

Eppure, nonostante tutti gli stratagemmi utilizzati, così come succede nelle peggiori dittature, i “reprobi” sono stati attaccati da loro illustri colleghi e dai maggiori giornali: tacciati di “ipocrisia” e “vanesio protagonismo”, nel migliore dei casi, “costretti” a ritirare la firma e a fare pubblica contrizione in due casi. Il manifesto è un primo passo, ma la strada da percorrere è, come si vede, ancora tanta. E i danni fatti dal “politicamente corretto”, soprattutto alle giovani generazioni (anche quelle facoltose che possono permettersi college di qualità), è forse irreparabile.

Corrado Ocone, 9 luglio 2020

 

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