Politica

“Polizia incostituzionale”. I pro-Pal non sanno quello che dicono

Esponenti politici e giornalisti dichiaratamente ostili all’attuale governo, pur stigmatizzando le violenze che hanno caratterizzato le manifestazioni pro-Pal tenutesi di recente, non hanno esitato a criticare l’operato dell’autorità preposta alla tutela dell’ordine pubblico che, secondo loro, nel solco della stretta repressiva
avviata dal governo, avrebbero imposto divieti che limitando il diritto costituzionali dei cittadini a potersi riunire pubblicamente per la libera manifestazione del pensiero sono stati all’origine della violenze a cui abbiamo assistito.

Qualche giorno fa, in una nota trasmissione televisiva apertamente schierata contro il governo, il prof. Sabino Cassese, la cui saggezza e vasta cultura giuridica è unanimemente riconosciuta, alla provocazione della conduttrice sull’opportunità del divieto alle manifestazioni, ha tenuto a precisare che funzionari e dirigenti del Ministero dell’Interno sono degli eccellenti professionisti che se decidono di vietare una manifestazione lo fanno nel rispetto della legge e dei manifestanti. A prescindere dall’autorevole parere dell’illustre giurista, sono ben evidenti le posizioni di coloro che faziosamente e per fini ideologici si richiamano a sproposito alla Costituzione, alla quale danno una lettura molto personale che snaturandone i principi induce alla violazione delle norme giuridiche che promananti da uno stato democratico se non condivise possono essere cambiate nelle sedi istituzionali a ciò preposte ma non per questo violate.

Al riguardo, per dimostrare la vacuità delle tesi di questi nuovi improvvisati “costituzionalisti” è sufficiente una scorsa ad alcune sentenze della Corte Costituzionale che hanno stabilito dei fermi principi in materia che tuttora resistono. La prima sentenza della Corte Costituzionale emessa nel lontano 1956, riguardò proprio le modalità di esercizio della libera manifestazione del pensiero prevista dall’art. 21 della Costituzione. La Corte fu chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’art. 113 della legge di pubblica sicurezza, all’epoca vigente, che prevedeva il divieto, in assenza di autorizzazione dell’autorità locale di pubblica sicurezza, di distribuire o mettere in circolazione, in luogo pubblico o aperto pubblico scritti o disegni.

La Corte ne dichiarò l’incostituzionalità perché la norma conferiva un’eccessiva discrezionalità all’autorità di pubblica sicurezza che, non vincolata al rispetto di limiti giuridici ben definiti finalizzati ad impedire fatti costitutivi di reato o che avrebbero potuto provocarli, concedendo o negando l’autorizzazione, indipendentemente dal fine specifico di tutela di tranquillità e di prevenzione di reati, avrebbe di fatto potuto consentire o impedire caso per caso la manifestazione del pensiero. La Corte non mancò di precisare che la Costituzione non vietava la regolamentazione del diritto di libera manifestazione del pensiero perché la regolamentazione dello stesso non costituisce violazione o negazione del diritto se la disciplina è rivolta a far sì che “l’attività di un individuo rivolta al perseguimento dei propri fini si concili con il perseguimento dei fini degli altri” anche quando ne costituisca un limite perché “il concetto di limite è insito nel concetto di diritto e che nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile.”

La Corte chiariva, altresì, che fosse da escludere che la Costituzione con l’enunciazione del diritto di libera manifestazione del pensiero “abbia consentite attività le quali turbino la tranquillità pubblica, ovvero abbia sottratta alla polizia di sicurezza la funzione di prevenzione dei reati.” Questo breve richiamo parrebbe già sufficiente a dimostrare l’inconsistenza di certe argomentazioni ma ad essere più precisi si vogliono qui richiamare i principi contenuti in altre due sentenze che riferendosi alla prima sentenza chiariscono ancor meglio i suesposti principi. Nello stesso anno, nella sentenza successiva (la n.2/1956) relativa alla pronuncia di incostituzionalità dell’art. 157 dell’allora vigente testo unico delle leggi di pubblica sicurezza ritenuto incompatibile con l’art. 16 della Costituzione (libertà di circolazione sottoposta alle sole limitazioni previste dalla legge per motivi di sanità o di sicurezza) fu ancor meglio chiarito il concetto di sicurezza ed ordine pubblico.

Nella motivazione della sentenza si legge: “Esclusa l’interpretazione, inammissibilmente angusta, che la “sicurezza” riguardi solo l’incolumità fisica, sembra razionale e conforme allo spirito della Costituzione dare alla parola “sicurezza” il significato di situazione nella quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio di quei diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza. Sicurezza si ha quando il cittadino può svolgere la propria lecita attività senza essere minacciato da offese alla propria personalità fisica e morale; è l'”ordinato vivere civile”, che è indubbiamente la meta di uno Stato di diritto, libero e democratico”.

Nella stessa sentenza, per quanto riguarda l’ordine pubblico: “… la pericolosità in riguardo all’ordine pubblico non può consistere in semplici manifestazioni di natura sociale o politica, le quali trovano disciplina in altre norme di legge, bensì in manifestazioni esteriori di insofferenza o di ribellione ai precetti legislativi ed ai legittimi ordini della pubblica Autorità, manifestazioni che possono facilmente dar luogo a stati di allarme e a violenze, indubbiamente minacciose per la “sicurezza” della generalità dei cittadini, i quali finirebbero col vedere, essi, limitata la propria libertà di circolazione”. Per stroncare ogni strumentale e tendenziosa polemica in merito ad una presunta deriva autoritaria si intende richiamare da ultimo la sentenza n. 19 del 1962: “L’esigenza dell’ordine pubblico, per quanto altrimenti ispirata rispetto agli ordinamenti autoritari, non è affatto estranea agli ordinamenti democratici e legalitari, né è incompatibile con essi. In particolare, al
regime democratico e legalitario, consacrato nella Costituzione vigente, e basato sull’appartenenza della sovranità al popolo (art. 1), sull’eguaglianza dei cittadini (art. 3) e sull’impero della legge (artt. 54, 76-79, 97-98, 101, ecc.), è connaturale un sistema giuridico, in cui gli obbiettivi consentiti ai consociati e alle formazioni sociali non possono esser realizzati se non con gli strumenti e attraverso i procedimenti previsti dalle leggi, e non è dato per contro pretendere di introdurvi modificazioni o deroghe attraverso forme di coazione o addirittura di violenza. Tale sistema rappresenta l’ordine istituzionale del regime vigente; e appunto in esso va identificato l’ordine pubblico del regime stesso.

Non potendo dubitarsi che, così inteso, l’ordine pubblico è un bene inerente al vigente sistema costituzionale, non può del pari dubitarsi che il mantenimento di esso – nel senso di preservazione delle strutture giuridiche della convivenza sociale, instaurate mediante le leggi, da ogni attentato a modificarle o a renderle inoperanti mediante l’uso o la minaccia illegale della forza – sia finalità immanente del sistema costituzionale. Se per turbamento dell’ordine pubblico bisogna intendere l’insorgere di un concreto ed effettivo stato di minaccia per l’ordine legale mediante mezzi illegali idonei a scuoterlo – ed è da escludere che possa
intendersi altro -, è perciò chiaro che non possono esser considerate in contrasto con la Costituzione le disposizioni legislative che effettivamente, e in modo proporzionato, siano volte a prevenire e reprimere siffatti turbamenti. Né può costituire impedimento all’emanazione di disposizioni del genere l’esistenza di
diritti costituzionalmente garantiti. Infatti, la tutela costituzionale dei diritti ha sempre un limite insuperabile nella esigenza che attraverso l’esercizio di essi non vengano sacrificati beni, ugualmente garantiti dalla Costituzione. Il che tanto più vale, quando si tratti di beni che – come l’ordine pubblico – sono patrimonio
dell’intera collettività.

Occorre perciò concludere che anche la libertà di manifestazione del pensiero (come del resto questa Corte già ha avuto occasione di affermare nelle sentenze n. 1 del 1956, e nn. 33, 120 e 121 del 1957) incontra un limite nell’esigenza di prevenire o far cessare turbamenti dell’ordine pubblico”. Ogni ulteriore commento appare superfluo.

Aniello Cuomo, 13 ottobre 2024

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