Politica

Premierato: e se fosse un diversivo?

La riforma costituzionale del governo Meloni non ha i numeri alle Camere. Ma sarà un cavallo di battaglia alle elezioni

© MATTHIASRABBIONE e pixelshot tramite Canva.com

La riforma costituzionale come arma di distrazione di massa del governo? Secondo un vecchio saggio, c’è una sola ragione che spinge la Meloni per la riforma costituzionale: non la vuole fare. Se fosse stata davvero intenzionata avrebbe dovuto cogliere l’occasione per volare alto, allargando il suo orizzonte ed aprendo un tavolo con le migliori intelligenze di destra e di sinistra del Paese. Buttando invece sul tappeto in questo modo il tema delle riforme, per spostare forse l’attenzione dalla legge di bilancio e dall’inadeguatezza di alcuni ministri, non fa che compattare le opposizioni contro di lei, ottenendo quello che più ama da sempre: un nemico da combattere.

L’unico modo per stravincere alle elezioni europee e poi magari rinunciare, con una scusa qualsiasi, all’insidioso progetto. In uno scenario internazionale complesso come quello attuale, ve lo immaginate il cancelliere tedesco o il presidente francese parlare di riforme? “Nel momento di massima confusione, il massimo della velocità è stare fermi”, diceva Ciriaco De Mita, vecchia volpe della prima Repubblica il quale, anche lui, rimase arenato con la commissione bicamerale per le riforme. Il niet alla “madre di tutte le riforme, escludendo i soliti noti, è peraltro trasversale fino a Giuliano Amato.

Pertanto, mettiamoci comodi, perché ci aspettano, presumibilmente, almeno due anni di messinscena, visto che il governo non ha i numeri per evitare un referendum che di solito non porta bene. E il birignao del Consiglio dei ministri dei giorni scorsi ne è solo il prologo. Due sono i punti essenziali della riforma costituzionale: l’elezione diretta a turno unico del premier per cinque anni e il premio di maggioranza al 55% assegnato su base nazionale. Ci aveva provato Alcide De Gasperi e la sua fu bollata come legge-truffa. Infine, c’è la cosiddetta norma “antiribaltone” che aspira, qualora il premier si dimetta, a “conferire”, da parte del capo dello Stato, il ruolo ad un altro parlamentare collegato allo stesso premier per mantenere un “orizzonte di legislatura”.

Il fine è non avere più governi tecnici (forse la Meloni teme che il neo governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta possa ad un certo punto sostituirla?) né arcobaleni. Quindi un quadro dalle tinte forti in previsione delle europee di primavera è d’obbligo e si pensa anche che ci sia bisogno di personalizzare la lotta politica in questo momento di debolezza governativa a causa delle guerre. Autorizzando così i soliti “autorevoli” osservatori a parlare di “gollismo de’ noantri”. Tuttavia una riforma costituzionale è questione di equilibri e rappresentanze.

Pertanto, niente giochetti né contromosse tattiche: la questione è troppo seria. Qualcuno dice pure che la riforma della Meloni è una mossa per neutralizzare la riforma Calderoli sulle autonomie che, di fatto, è la vera bomba ad orologeria sul governo e va quindi disinnescata. In effetti, in una seduta fiume al Senato sulla riforma della Giustizia, qualche tempo fa il presidente La Russa si rivolse così ad un ministro: “Questo non è niente, deve vedere che succederà quando arriverà la Calderoli”.

“Autonomia differenziata nel 2024” è la parola d’ordine del ministro leghista senza portafoglio per gli Affari Regionali e le Autonomie. Uno Stato federale a misura del settentrione d’Italia, con un gettito fiscale che non sarebbe più distribuito su base nazionale.

Ma allora, delle due l’una: stato centrale con premierato o stato federale?

In entrambi i casi, il Parlamento, che secondo la Costituzione è l’organo delle rappresentanze politiche e della democrazia, di fatto ‘svanisce’.

Addirittura, con la riforma promossa dal centrodestra, interverrebbe solo se il premier, eletto direttamente, si dimettesse. Ma se il modello d’ispirazione è quello delle Regioni, perché non attuarlo fino in fondo, tornando alle urne se il premier cade? C’è poi il ridimensionamento del ruolo del presidente della Repubblica, relegato ad un lavoro “notarile” ed esautorato di diverse prerogative, dallo scioglimento delle Camere alla nomina del premier – ma non di quella dei ministri – e dei senatori a vita, che è un vero autogol. Lo scenario messo in atto è premierato o morte. E se poi, come premier, contro la Meloni si presentasse un Draghi? O un giovane e brillante industriale di successo come Giovanni Ferrero che, in questi anni, ha viziato gli italiani prendendoli per la gola? Come molti suggeriscono, forse sarebbe il caso di fare leggi che vengano recepite come utili e necessarie dalla gente, ad esempio una sana legge elettorale senza farla rientrare nella Costituzione. Gli strumenti per costruire un dibattito sociale e incidere sulla vita degli italiani ci sono. Ma soprattutto si prende tempo per una vera riforma, magari di tipo presidenziale. In fondo, era questa l’idea ab initio, il premierato è stato solo un ripiego. Del resto, fu una battaglia identitaria della destra, iniziata addirittura da Giorgio Almirante. Alla fine, l’elezione diretta del presidente della Repubblica è forse quello che davvero vogliono gli italiani. E Meloni potrebbe anche dire, una volta terminato il mandato di Mattarella e messo da parte questo pastrocchio: ”Ce se po’ ancora provà”. E se non inciampa in qualche altro scherzo visto che Halloween è finito, al Colle potrebbe finirci proprio lei. Senza dover far rivoltare Montesquieu nella tomba.

Luigi Bisignani per Il Tempo 5 novembre 2023