Ieri è stata la volta di Napoli e Milano, qualche settimana fa di Roma. Il Gay Pride, con la sua sfilata di carri allegorici e con le ludiche esibizioni di corpi nudi e borchiati, è ormai un trito e stanco rituale che si è sostituito (non sembri blasfemo l’accostamento) alle processioni religiose del tempo passato. Delle quali conserva, a ben vedere, la struttura portante: la ripetività, la prevedibilità, il plauso interessato e strumentale delle autorità.
Ed in effetti Gaetano Manfredi e Beppe Sala si son affrettati a pronunciare frasi banali e di circostanza, l’uno (“la società è più avanti della politica”), e a fare promesse di natura legale, l’altro (“i figli di coppie omogenitoriali riavranno il riconoscimento”). Morte dell’Occidente? Crisi del sacro? Decadenza? Non scherziamo, troppo banale! “Mobilitazione contro i venti oscurantisti”, risposta ai “diritti” insidiati in America e presto anche da noi? Lasciamo stare!
Credo che la cultura omosessuale meriti qualche riflessione e qualche adesione di spirito più profonde? Chissà se qualcuno riflette sul fatto che alla fine i gay pride ci dicono una cosa ben precisa: che anche gli omosessuali, come un po’ tutti noi, sono stati assimilati, usati, normalizzati dal Potere; che le indubbie e sacrosante conquiste ottenute hanno generato anche un nuovo conformismo e nuova omologazione; che quella forza sovvertitrice che intendeva far vedere il rovescio della medaglia del perbenismo borghese è stata completamente depotenziata; che la provocazione mimata e la trasgressione recitata non provoca più nessuno e non trasgredisce nessuna regola, è anzi la nuova regola; che le sfilate gaie sono perfettamente inserite nel meccanismo dello spettacolo e del commercio, che le vuole, le cerca, le coccola, e che, mentre standardizza i comportamenti, crea personaggi e produce o conferme fame.
Si pensi solo ai recenti “matrimoni” di Alberto Matano e Riccardo Mannino o, sempre ieri, di Paolo Turci e Francesca Pascale. Tutto lecito, forse, ma non lasciamoci abbagliare: nel momento del suo trionfo, perché questo è anche se le parole e gli atteggiamenti sono restati quelli del tempo in cui si era davvero “minoranza”; nel momento del trionfo, dicevo, la cultura omosessuale muore, soccombe all’avversario che gli fa perdere l’anima. E quindi muore anche la possibilità che essa ha avuto, più di altre culture, di dare un contributo alla nostra cultura generale: da posizioni non comode e generando anatemi, certo, ma anche provocando fratture e smuovendo dall’interno, non per moto esteriore e modaiolo, le coscienze.
Solo in questo modo, non in altri, può concepirsi, ammesso e non concesso che ci sia, il progresso umano, ma vaglielo a spiegare. Se fossi alla Turci non mi indignerei (a furor di social) se qualcuno mi desse della “lesbicaccia” e proprio nell’essere tale avrei trovato e rivendicato il mio “orgoglio”. Proprio come quel mio amico, colto e intelligente, che ci teneva ad essere un “frocio” e non un gay. E me lo faceva presente ogni volta che si toccava l’argomento.
Corrado Ocone, 3 luglio 2022