Giustizia

Processo Salvini, il clamoroso errore della Procura

L’eventuale condanna dell’ex ministro degli Interni rappresenterebbe una gravissima censura nei confronti di una scelta politica

Com’è noto, il 14 settembre scorso la Procura della Repubblica di Palermo ha depositato la propria memoria conclusionale con cui la stessa ha riassunto e precisato i capi d’accusa, consistenti nel sequestro di persona e nel rifiuto di atti di ufficio, nei confronti di Matteo Salvini per la vicenda Open Arms e ha chiesto la condanna dello stesso a sei anni di reclusione. È interessante, a questo punto, cercare di comprendere se le conclusioni cui è giunta la Procura siano fondate o meno.

Innanzitutto bisogna analizzare cosa sia in realtà il principio della separazione dei poteri, di cui si è sentito tanto parlare – talvolta anche non correttamente – in merito al procedimento in questione. Vi è da dire che essa svolge una funzione garantista e trova le proprie radici nel costituzionalismo liberale del XVIII secolo e fu ipotizzata, dapprima, da Locke e, poi, da Montesquieu e, proprio quest’ultimo, riteneva come i tre poteri dello Stato moderno – legislativo, esecutivo e giudiziario – dovessero essere separati, affinché l’attività statale potesse realizzarsi secondo i principi proprio del liberalismo. E ancora oggi è così. Ma, a questo punto, è necessario chiedersi cosa sia il “potere”. Per i non addetti ai lavori, il termine “potere” potrebbe sembrare banale, al pari di tanti altri. In realtà, si tratta di un concetto storico piuttosto complesso, che è alla base del costituzionalismo moderno. Se vogliamo, il processo penale nei confronti di Salvini, ruota tutto intorno al concetto di “potere”.

Attribuzione – rectius riconoscimento – del potere e limitazione dello stesso potere: questi sono i problemi fondamentali del costituzionalismo liberale. Perché?
In realtà, a differenza da come si pensa, il principio della separazione dei poteri non va inteso in senso rigido, nell’accezione di una totale incomunicabilità tra poteri dello Stato. Se così fosse, non vi potrebbe essere la “limitazione” del potere, che, come già detto, rappresenta l’altro grande problema del costituzionalismo moderno. Nessun pensatore, filosofo, giurista o politologo che sia, a partire proprio da Locke e da Montesquieu, ha mai ipotizzato una tripartizione dei poteri in maniera netta e rigida con una totale non interferenza tra questi. Anzi, è proprio il contrario. Anche per il nostro ordinamento è così: basti pensare che la maggior parte dei ministri – che rappresentano, quindi, il potere esecutivo – sono scelti quasi sempre tra i parlamentari – che rappresentano, invece, il potere legislativo –, e svolgono contemporaneamente l’incarico di ministri e parlamentari.

Tornando al caso in questione, occorre evidenziare che l’incardinamento di un processo nei confronti del presidente del Consiglio dei ministri, oppure dei singoli ministri, è previsto dall’art. 96 della nostra Costituzione, e rappresenta un altro esempio lampante di interferenza tra poteri. Quest’articolo contempla la sottoposizione degli stessi alla giurisdizione ordinaria per i reati “commessi nell’esercizio delle loro funzioni”, meglio conosciuti come reati ministeriali. Inoltre, questo tipo di responsabilità dell’esecutivo – che è giuridica, in quanto derivante da atti compiuti in violazione di leggi – è disciplinata dettagliatamente dalla legge costituzionale n. 1 del 1989. Tale legge prevede che, laddove la Procura abbia notizia di un reato compiuto da un membro del governo, quest’ultimo deve trasmettere la notizia ad un collegio composto da tre giudici – il c.d. Tribunale dei Ministri – istituito presso il Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’Appello competente per territorio, che, nel caso di Salvini, è quello di Palermo. Il Tribunale dei Ministri può disporre l’archiviazione, ritenendo palesemente infondata la notizia di reato, oppure trasmettere una relazione motivata alla Procura della Repubblica, per chiedere, alla Camera di appartenenza, l’autorizzazione a procedere, se il ministro ricopre anche la carica di parlamentare. Laddove il ministro non sia parlamentare, l’autorizzazione viene chiesta al Senato. La Camera investita da tale richiesta può negare l’autorizzazione, a maggioranza assoluta dei suoi membri, oppure concederla.

Nel caso di Salvini, l’autorizzazione è stata concessa nel 2020. Concluse le indagini, Salvini è stato rinviato a giudizio e, allo stato, essendo quasi giunti alla conclusione del processo, la Procura di Palermo, con la citata requisitoria – di ben 237 pagine -, chiede la condanna dello stesso a sei anni di carcere per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio. A sostegno della propria tesi, la Procura ritiene violate, da parte dell’ex ministro dell’Interno, la Convenzione di Ginevra del 1951, conosciuta anche come Convenzione ONU, la Convenzione di Amburgo del 1979, nonché la Convenzione di Montego Bay del 1982, dalle quali deriva l’obbligo di prestare soccorso a persone in stato di pericolo o perché rifugiati, o perché naufraghi o perché su imbarcazioni in evidente stato di pericolo. Allo stesso tempo, proprio la Convenzione di Ginevra individua la nozione di rifugiato come colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”.

I principi contenuti in queste Convenzioni internazionali, lette in combinato disposto con l’art. 10 della nostra Costituzione – il quale prevede che “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge” – tendono a far ritenere colpevole Matteo Salvini. Tra l’altro, vi è da dire, che le Convenzioni internazionali si trovano in una posizione superiore alle leggi ordinarie dello Stato, e su tali affermazioni, nulla quaestio. Ma, a prescindere dall’interessante lezione di diritto internazionale pubblico fornita dalla Procura di Palermo nelle sue 237 pagine, Matteo Salvini è davvero responsabile del compimento di reati ministeriali di cui all’art. 96 della Costituzione?

In realtà, il clamoroso errore in cui cade la Procura è quello di non considerare l’imputato, all’epoca dei fatti, quale ministro dell’Interno, e, che lo stesso, pertanto, agiva per dare attuazione ad un indirizzo politico. In parole povere, tentava di realizzare quanto promesso in campagna elettorale. Quindi, a ben vedere, si tratta di un problema prettamente politico. Un comportamento diverso, da parte del ministro dell’Interno, avrebbe esposto lo stesso ad una responsabilità di natura politica. A tal proposito è interessante evidenziare il principio espresso dalla Cassazione in un precedente giurisprudenziale del 2003, il cui contenuto solare lascia ben pochi spazi di interpretazione: “Il reato di sequestro di persona richiede, sotto il profilo soggettivo, la consapevolezza di infliggere alla vittima una illegittima privazione della libertà personale. Ne consegue che deve escludersi la configurabilità del suddetto reato allorché la privazione della libertà costituisca il risultato di una condotta che, sebbene oggettivamente illegittima, sia contrassegnata soggettivamente dalla finalità di realizzare l’esercizio di un potere del quale l’agente sia legittimamente investito e non si caratterizzi come comportamento privo di ogni legame con l’attività istituzionale” (Cassazione Penale, Sez. VI, sent. n. 502 del 10.01.2003).

Utilizzando termini propri del diritto penale, alla fattispecie non si può integrare il reato di sequestro di persona non solo dal punto di vista del fatto tipico ma, soprattutto, dal punto di vista del dolo. Infatti, è palese che nella condotta di Salvini non c’era la volontà di privare le persone della libertà personale. Proprio sotto tale aspetto, è interessante osservare come il Pubblico Ministero, nella citata requisitoria, abbia forzato la propria tesi soprattutto per quanto riguarda la prova del dolo. Se il Tribunale davvero dovesse accogliere le motivazioni e le richieste del Pubblico Ministero, sicuramente ci troveremmo di fronte ad una ingerenza del potere giurisdizionale nei confronti degli altri poteri dello Stato, perché la magistratura influirebbe gravemente su scelte di indirizzo politico. Scelte, appunto, che appartengono ad altri poteri.

In conclusione, è palese che la condotta di Matteo Salvini è riconducibile all’attuazione del suo programma politico. Proprio di quel programma per cui era stato legittimamente votato dal corpo elettorale. Una eventuale condanna rappresenterebbe una gravissima censura nei confronti di una scelta politica ed un preoccupante precedente giurisprudenziale.

Giovanni Terrano, 23 settembre 2024

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