Possono metterci tutti gli arcobaleni che vogliono quelli del gay pride di scena oggi a Roma, ma alla fine i colori che contano sono due: il primo è quello dei soldi, che nella oliata perfetta macchina da baraccone si respirano dappertutto. Il secondo è il rosso della politica che va da Elly Schlein fino ai satelliti di Bonelli&Fratoianni. E non lo nascondono se un portavoce lo ammette, lo dice chiaro: sono preoccupati per le “destre che avanzano” e vedono il Pride come “un esercizio di resistenza, un modo di fare opposizione a questo governo”.
Particolarmente in Italia la carnevalata dei 40 carri allegorici che sfilano per la Capitale è mero pretesto così come i diritti che si assumerebbero violato, insidiati dal governo Meloni che in ha scelto di seguire in politica la linea del liberismo economico, “lasciar fare, lasciar passare”. Ma che Pride sarebbe senza vittimismo? I vari comunicati ufficiali sono a metà tra la propaganda da fiera e la bassa politica del servilismo manovriero, non riescono a proporre altro che retorica stantia: “l’aria pesante sui diritti, sulla libertà di informazione, sul diritto alla protesta”. E per protestare si prendono la città e arrivano ai carnasciali con tanto di metropolitana gender multicolore. Ma c’è un altro comandamento del liberismo anarcoide e vittimistico: non basta mai, più ottieni e più rivendica.
Profumo e colore di soldi: la sfilata dell’Orgoglio Gay, ma dirlo in italiano, una volta, no?, offre la consueta passerella di vippetti opportunistici che o campano di rendita, come la “divina” Patty Pravo, o si propongono all’insegna del cambio generazionale, le giovani che cacciano le vecchie come Annalisa, “orgogliosissima di fare la madrina”: gli affari si fanno anche così, le arene si riempiono anche così, studiando con attenzione il target. Diritti negati, insidiati, retrocessi, quali? Ma sui carri l’organizzazione mette le sagome dei giornalisti e dei circensi che si assumono, senza timor del ridicolo, torturati dal regime, dalla Littizzetto, figurarsi, alla Bortone, molto gettonata, molto presente, forse in funzione di giuntura tra l’antifascismo televisivo degli Scurati e il genderismo piazzaiolo dei “pride”. C’è perfino Augias, sorta di insospettabile protogarantista dei diritti gender. Ma c’è da capire, questa “è la nostra risposta ad Atreju, a Giorgia Meloni che ha messo alla berlina giornalisti e conduttori sgraditi al governo” e siamo già al cabaret, all’avanspettacolo.
Quali diritti rivendicano, quali sarebbero stati negati dal governo “oppressivo e repressivo”? Quello all’aborto aspirina, tre al giorno e passa la paura, quello all’utero in leasing, dei ricchi sulle miserabili cui in gestazione non consentono la musica altrimenti il feto empatizza, e restano cinghiate per settimane come i matti del manicomio? Ma se perfino al G7 hanno letto una dichiarazione falsissima in cui si assumono a rischio questi fantomatici diritti gender. Ma tu insisti, se no il luna-park iridato perde colpi. Altri motivi di palesarsi, a questa stregua, non se ne scorgono, posto che i giornali si riempiono di vaneggianti speciali semantici, cromatici, psichiatrici sulle infinite sfumature del gender, ormai dilatato, inflazionato a moda, a tema di conversazione, e che la cosiddetta lobby non ci sarà ma intanto è dappertutto e la fa da padrona nelle televisioni.
Oggi ci stanno anche la Big Mama sanremese, trait d’union tra consumismi, gender e corporale, il “body positive”, spedita subito a predicare al Parlamento europeo, e anche qualche vincitrice di notori programmi “reality”. Tutto di tutto e tutto nel tutto, per non aver niente da dire: questo è il gay pride romano, italiano, che segue il rigido copione di sempre tra la fiumana dei centomila o quanti sono che seguono i pifferai, molti a leccarsi le ferite elettorali come quelli di +Europa, oppure gli altri, aproblematici, qualunquistici, risucchiati dalla folla ebbra, che vogliono essere parte a prescindere perché nella società virtuale ci sei solo se appari, se non ci sei davvero; e poi gli esaltati dell’altera pars, i militia christi, i pro vita che trovano ancora modo di scandalizzarsi, recita nella recita.
Non possono mancare, lo abbiamo visto, i cori contro Meloni e, per la prima volta, i sarcasmi al Papa Bergoglio non più feticcio arcobaleno, ma torna buono per in facile slogan, “libera frociaggine in libero stato“, povero conte di Cavour, la “frocieria” come un culto e della religione ha difatti la spregiudicatezza utilitaristica, non si butta via niente nel gran casino di esibizionisti, di volgari, di osceni, di interessati, di arrivisti, di parassiti e poi dj, coreografi, ballerini e tutti quelli che cercano un lavoro possibilmente divertente e che non sanno fare e sono gli stessi che quando i pride o le parade erano proibite dal regime reclusorio, con la scusa del virus, non fiatavano alla libertà stuprata, non vedevano i diritti martoriati, si adeguavano alla volontà dei partiti egemoni. Ma si sa che la razza umana è ondivaga, procede per risacche, per mode anche opportunistiche e questa è davvero la genetica che accomuna tutti, che prescinde dalle sigle infinite e dalle infinite sfumature della sessualità vera o millantata.
Fra tanto gioioso happening una sola nube scura, subito fatta passare: in questo tempio inclusivo, ecumenico, dei diritti, delle giuste istanze, non ha trovato posto la comunità omosessuale degli ebrei che in Israele è accolta e rispettata ma a Roma, Italia, molto meno. Il portavoce Colamarino se la cava girandoci intorno: “Che peccato, è una sconfitta per tutti se succedono queste cose”. Tutto qui? Niente “aria pesante”, niente “mai zitt3”? Ma sono loro a non averceli voluti, sono gli accoglienti per costituzione che ghettizzano i gender semiti i quali capiscono l’antifona, a sfilare insieme ai pro-Pal rischiano bastonate e forse peggio. In Israele no, ma nella Gaza di Hamas e nella Russia di Putin gli omosessuali si trovano benissimo, in particolare gli italiani, perché non ci vanno mai.
Meglio transigere, meglio godersi la liturgia del potere della segretaria piddina Schlein venuta a riscuotere l’imprevisto exploit elettorale, con vicino il compare Zan, impresario e padrone: si agitano all’inno Mon amour di Annalisa, che forse verrà candidata per meriti sessual canterini, e sembrano consacrare la confusione irresponsabile di un partito post tutto dove tutti “si baciano” ma senza distinguersi, senza riconoscersi. Un po’ alla Joe Biden. Ma che cosa sarebbe la vita senza il carnevale?
Max Del Papa, 15 giugno 2024
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