Se c’è una cosa che la “musica del demonio”, chiamala rock, pop, rap o come la preferisci, diciamo la musica del consumo commerciale, ha dimostrato nella sua storia, è la massima evangelica del “chi è senza peccato”, per dire che ciascuno di noi, potendo abusare della vita, cadrebbe nelle stesse abiezioni, la escatologica democrazia del peccato e della debolezza: non esiste praticamente forma d’arte che vada immune dai vizi e dalle depravazioni diremmo rituali, non c’è protagonista del mondo dei sogni e dei miraggi che possa presentarsi al Dio “che giudica e manda” e dirgli: io mi sono salvato, io ne sono rimasto fuori. Per la semplicissima ragione che l’occasione fa l’uomo ladro, la tentazione se puoi permetterla è irresistibile, cosa che i santi meglio dei peccatori sanno perfettamente, e più sali di livello e di privilegio e meno hai forza e voglia di resistere.
Non esiste musica, rock, o pop, o come si vuole senza abisso e se ci mettiamo a rievocare il gossip estremo non finiamo più, anzi finiamo nell’abisso del patetismo e del moralismo. Del resto non mancano i libri scandalistici alla “Hollywood Babilonia”. Oggi gli artisti emergenti “spostano il Pil globale”, come la figurina Taylor Swift, i giullari e i trovatori del medioevo sono diventati padroni nella finanza globale, la musica consumistica come specchio del tempo, rivelazione dello zeigeist come della weltanschauung, tutto è tranne che una scoperta. Ad ogni arte la sua dissoluzione: Mozart, il divin fanciullo, è passato ai posteri in fama di sporcaccione sublime, depravato come un bambino, irresponsabile e capriccioso come un bambino. Che avrebbe combinato alle prese con le occasioni, le abitudini, le impunità di oggi?
Impunità fino a un certo punto: le cose diventano più interessanti quando entra in gioco la variabile politica; i baccanali, più o meno sempre gli stessi nel totale sfrenamento dei corpi, che nel 186 avanti Cristo il Senato romano, esasperato, preoccupato per la degenerazione che rischia di lambire la società, arriva a riformare, ossia li censura. Neanche questa onda dionisiaca che arriva ai confini del potere, che minaccia di travolgerlo, è una novità, però qui le cose si fanno più interessanti. Dai casini dei Rolling Stones che nel ’77 quasi provocano la crisi del governo canadese, a causa della moglie del premier Pierre Trudeau – ma questo Justine, che comanda oggi come legittimo erede, sarà mica figlio spurio di Mick Jagger, Ron Wood o Fidel Castro? – alle ammucchiate di Puff o Piff Daddy, nomi cretini per un boss del rap commerciale. Puff o Piff è finito in galera, dove rischia di restare per i prossimi 15 anni: casualmente in occasione del suo sostegno al miliardario Musk che sostiene il miliardario Trump, le cataratte lacrimose delle vittime vere o presunte si sono aperte, le poverelle che passavano di lì per caso si son messe a cantare, loro, e in America certe cose le fingono di prenderle ancora maledettamente sul serio.
Lo definiscono “il metoo” della musica e, quanto a proporzioni delle accuse e delle ipocrisie, lo ricorda e come: non c’è giorno che un ex moccioso o una ex aspirante esperta, l’ultima di oggi si chiama Thalia Graves, non rievochino dirotte esperienze traumatiche di venti e più anni fa. Le accuse sono tremende, un ventaglio della vergogna: pedofilia, stupro, spaccio, traffico d’armi, corruzione di minori, ricatto, violenza fisica e mentale; le circostanze oscillano come sempre tra l’inverecondo e il comico, “mi ha messo un dito nell’ano e mi diceva cosa fare”. Puff, che in effetti si chiama Sean Combs, non replica se non per dirsi innocente. Innocente! Ma in America il garantismo all’italiana non tira, l’America infame ma puritana preferisce ancora il sospetto, il “dove c’è fumo c’è arrosto”. Che arrosto ci sia pare fuori di dubbio, come per altri orchi, Weinstein, Epstein, che la carne bruciata fosse tutta di prima qualità, pare improbabile.
Che noia però questo reame delle favole laide, questo Paese dei Balocchi perversi, che desolazione almeno per chi la storia della musica la mastica: le solite ammucchiate sudate, lubrificate, stordite: anche qui i tempi sono al ribasso, tutto già visto, tutto già conosciuto, almeno i Rolling Stones, ah, sempre loro!, alle feste del capo di Palyboy, Hugh Hefner, conigliette e “polvere” di eccelsa scelta, trovavano modo di mandargli al rogo il villone nello starnazzare delle mignotte in fuga, una scena irresistibile, alla Monty Python, alla Marty Feldman. Non si è mai saputo se Hugh avesse mandato il conto a Keith Richards e Bobby Keys, entrambi svenuti nel cesso, farciti di eroina mentre partiva l’incendio, ma almeno era divertente leggerlo. Che si può immaginare dopo di questo? Oggi il massimo del brivido è sospettare una manovra elettorale, sputtanare Puff o Piff per segare l’altro puttaniere, quello in lizza per le elezioni. Un po’ triste, questo tempo così prevedibile nel suo anarchismo post tutto.
Tira una cert’aria di fine epoca, di fine impero sul serio, di consunzione da esagerazione, da troppa vita e morte già bruciata lungo il Novecento, “secolo breve” strabordante di tutto il cupio dissolvi possibile e immaginabile. Come ebbe a dire Saul Bellow all’indomani delle Torri Gemelle: «L’apatia e il qualunquismo di quest’orgia consumistica si erano generalizzati, tutte le energie venivano canalizzate nell’acquisizione di beni e nel disinteresse per i problemi reali del paese. La società dei capitali ha continuato a considerare il mondo come un puro mercato del lavoro sottosviluppato. La globalizzazione ha ucciso il socialismo, ha smantellato la solidarietà». Un po’ duro, ideologico, ma sostanzialmente corretto: globalizzazione nei traffici ma anche nella scoperta dell’acqua calda, nella riproposizione, pedestre, triste, dei rituali e delle degenerazioni, dei modelli ludici e delle relative dannazioni. O della resa di ogni distinzione e ambizione, basta solo che affoghi nel denaro.
Questo globalismo tuttora inafferrabile, sul quale nessuno è mai riuscito a dire una parola definitiva, una definizione precisa, comunque ad uso e consumo dei ricchi che possono imporre agli altri, al cittadino plebe tutti i loro modelli, ha inventato la internet, i social per diffondere meglio i suoi disvalori, l’arrivismo puttanesco degli influencer; dice questo sistema post tutto e magari post se stesso: ma come, non vi piace così? Non vi piace questa lotteria truccata, questa falsa possibilità di arraffare la cornucopia, soldi facili senza saper fare niente? Certo, il rovescio della medaglia è la regola di Wanna Marchi, “i coglioni si inculano”, ma che altro vorreste? L’etica protestante del duro lavoro, della giusta mercede? Scoprire “di che lacrime grondi e di che sangue” il disperato, disperante vivere?
Ma se c’era quella creatrice digitale, per così chiamarla, niente di speciale a dirla tutta ma lei si vedeva irresistibile e berciava: “Io studiare? Laurearmi? Ma sei fuoriii? Se una è figa non ha bisogno di studiare, io quest’estate ho girato il lusso del mondo, pagata da quelli che accompagnavo. Lavorare, studiare è per le cesse”. E aggiungeva di “non avergliela data a nessuno di loro perché non ne ho bisogno”. La domanda a questo punto inevitabile è la seguente: è più indecente il Puff Daddy delle orge sbracate o la “creator” che gira il mondo a strascico e prende in giro mentre ribadisce la sua virginale purezza? E la risposta è che non c’è risposta perché il vello d’oro azzera le differenze. È vero quanto scriveva Giorgio Bocca e cioè che questo non è il primo globalismo della nostra storia ma certo è il più violento e sovversivo, troppo impetuoso perché le nostre limitate possibilità mentali e fisiche possano reggerlo; da cui, si può aggiungere oggi, i continui massacri, inspiegabili per primi da quelli che li hanno compiuti.
Tutto è rappresentazione, del già fatto, del già scoperto, ma, contando sulla totale e pervicace smemoria e sconoscenza, tutto viene spacciato per clamoroso, inedito e sconvolgente mentre non è altro che «il racconto pieno di rumori e di furore narrato da un idiota, che non significa niente» di cui scriveva Shakespeare nel 1600. Le orge di Tigellino erano diverse da quelle di Puff Daddy? Questo globalismo inafferrabile ma a ragnatela si regge sulla contraddizione di sistema: predica, impone qualsiasi cosa, vaccini, auto elettriche, energie vuote, soluzioni vuote, tutto scaricato come mine vaganti, come bombe a grappolo, e poi, come niente fosse, di fronte a fallimento e sicuro fallimento, se lo rimangia, lo cancella. Dando la colpa a chi le bombe le ha subite.
La nostra premier va a New York a difendere i valori dell’Occidente, del suo capitalismo democratico, del suo illuminismo conservatore, ma dovrebbe prima spiegare cosa ne è rimasto dopo un lockdown globale, un Panopticon allucinante di 8 miliardi di persone, completamente inutile e socialmente devastante. Meloni parla certamente in buona fede, ma la contraddizione non lascia scampo neanche a lei: difende Israele ma lo prega di risparmiare i bambini e gli innocenti che è precisamente ciò che Israele non vuole fare, anzi vuol chiaramente dimostrare al mondo il contrario. Gli Stati Uniti dicono a Israele: noi non ti appoggiamo apertamente ma neanche ti sabotiamo, veditela tu, se riesci, ad imporre quel vecchio nuovo ordine mondiale che ci sta sfuggendo di mano.
Identico sostegno va all’Ucraina, il cui capo Zelensky rivela, senza produrre prove, che la Russia intende abbattere la centrale nucleare di Zaporižžja aprendo di fatto la guerra totale. Cosa possibilissima, tanto più che Putin non ne fa mistero. Ma per scongiurare l’Olocausto Zelensky pretende l’Olocausto, qualcosa di molto simile alla rasatura al suolo della Russia. Come a dire resistere all’annientamento annientando. E in questo gioco irresponsabile non si capisce più da che parte stiano tutti. È vero, preservare l’Occidente o quello che ne resta è fondamentale. Ma in quale modo, presidente, e con quali prospettive, con quale raziocinio nel tempo della pazzia totale?
Max Del Papa, 26 settembre 2024
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