“Io ieri mi sono nuovamente sentito offeso e la memoria di Giulia umiliata” – con queste parole inizia un commento del padre di Giulia Cecchetti, postato sui social per stigmatizzare l’intervento del difensore di Filippo Turetta – “La difesa di un imputato – ha proseguito Gino Cecchettin – è un diritto inviolabile, credo sia importante mantenersi entro un limite che è dettato dal buon senso e dal rispetto umano. Travalicare questo limite – aggiunge – rischia di aumentare il dolore dei familiari della vittima e di suscitare indignazione in chi assiste”. Il riferimento di Gino Cecchettin è alle parole della difesa che ha contestato le aggravanti, in primis la premeditazione, avanzate dai pm nei confronti di Turetta e definito l’ergastolo una pena “degradante e inumana”.
Ora, con tutto il rispetto per il dolore immenso che questo atroce ha causato alla famiglia della povera vittima, la presa di posizione del padre è comprensibile ma lede in qualche modo, pur negandolo, il diritto della difesa a contrastare le accuse rivolte all’imputato. E lo fa in una drammatica vicenda giudiziaria che, oltre ad aver scatenato le orde mediatiche che anticipano e, in qualche modo, influenzano i verdetti, è diventata una questione politica, alimentando una presunta – tant’è che i numeri la smentiscono – emergenza legata ai cosiddetti femminicidi che soprattutto i partiti di sinistra e le organizzazioni ad essi legate stanno da tempo cavalcando.
In particolare, se si nega al reo confesso, Filippo Turetta, di sostenere, attraverso i suoi legali, una linea che ne alleggerisca la già gravissima posizione, tanto varrebbe evitare i costi e la lungaggine del giudizio in tribunale, mandandolo direttamente in carcere e, come si suol dire, gettando la chiave. Inoltre, proprio per la rilevanza politico-mediatica che il caso ha raggiunto, facendo riemergere dalla soffitta delle idiozie di massa il fantasma di un patriarcato, che secondo Massimo Cacciari sarebbe scomparso da almeno 200 anni, l’intervento di Gino Cecchettin rischia fortemente di indirizzare a priori l’orientamento dei giudici verso una condanna che accolga tutte le richieste della pubblica accusa.
In tal senso, anche in considerazione di moltissimi altri casi giudiziari piuttosto dubbi, finiti regolarmente con una condanna esemplare a furor di popolo-mediatico, come cittadini che credono nei principi del giusto processo, dobbiamo almeno consolarci sapendo che in Italia la pena di morte è stata abolita il primo gennaio del 1948.
Claudio Romiti, 28 novembre 2024
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