Non siamo ancora “al mio segnale, scatenate l’inferno!”, ma lo zar Putin è furibondo per l’esclusione della Russia per “doping di Stato” dalle manifestazioni sportive internazionali. L’inno di Mosca, riadattato nel 2000 al nuovo scenario politico cancellando i riferimenti a Lenin e al comunismo e introducendo quelli a Dio e alla religione, non risuonerà nelle prossime Olimpiadi in Giappone, né in quelle invernali del 2022 a Pechino e forse neanche ai mondiali di calcio in Qatar del 2024, se la “Sbornaya”, come chiamano la rappresentativa calcistica russa, dovesse qualificarsi.
Manca ancora qualche settimana prima di sapere se il Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna ribalterà la decisione presa dall’Agenzia antidoping mondiale (Wada). Una decisione che il primo ministro russo, Dmitry Medvedev, ha bollato come “la solita isteria anti russa”, ma che difficilmente verrà cambiata. I primi ad intuire , dopo l’arrivo della comunicazione ufficiale, l’ira di Putin sono stati Macron e Merkel, seduti accanto a lui all’Eliseo in quello che avrebbe dovuto essere il vertice della distensione con il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e a cui l’Italia di Giuseppe Conte non è stata ovviamente invitata. Nonostante le prove schiaccianti, Putin considera l’esclusione un affronto reputazionale, per uno come lui che, proprio attraverso lo sport, vuole mostrare al mondo la possenza della Grande Madre Russia.
In questi anni, infatti, non ha mai esitato a farsi fotografare in combattimento in “judogi”, la classica casacca da judo, o in muta da sub. Tutte le possibili reazioni di Mosca sono adesso analizzate con attenzione a Langley, in Virginia, sede della Cia. Non è un caso se la numero uno dell’intelligence Usa, Gina Haspel, ha destinato ingenti risorse per studiare le prossime mosse di Russia e Iran. Negli ultimi tempi l’attenzione verso questi obiettivi era calata per far fronte all’emergenza terrorismo. Ma ora che Mosca è tornata in auge, le analisi della Cia e del Dipartimento di Stato sono concentrate su due palcoscenici cruciali: la Libia e il Centro e Sud America. È qui che Putin sembra deciso a mostrare tutta la sua forza come monito per l’Europa e gli Stati Uniti. Non può essere certo un caso, infatti, se l’offensiva contro Tripoli è partita militarmente dopo la decisione della Wada. “Contractor” russi ben addestrati sono subito arrivati in appoggio alle truppe sgangherate del generale Haftar.
Ma se la Libia brucia, il Centro e il Sud America stanno scoppiando, con i premier dei Paesi filo americani che saltano uno dopo l’altro. La miccia è stato il Venezuela, dove Maduro è il più fedele alleato di Putin. Fallito il push, in gran parte diretto da Washington con un aspirante Presidente inadeguato come Juan Guaidó, l’autunno sudamericano assume sempre più gli aspetti della passata “Primavera araba” e nessuno più esclude l’attività sovietica nell’area, facilitata dallo sbandamento della Casa Bianca impegnata a difendersi dall’impeachment alla vigilia della tornata elettorale del 2020. In Argentina l’esperienza filo americana di Mauricio Macri è durata uno stornar di foglie ed è tornato forte l’asse tra Caracas e Buenos Aires via Cristina Kirchner. In Cile l’aumento del biglietto della metropolitana di Santiago ha fatto partire la protesta contro il Presidente Piñera.