Quando un europeo medio guarda agli Usa, compie il banale errore di credere che sia una nazione fatta interamente di grattacieli, lusso, innovazione, modernità.
Ebbene, una consistente fetta degli Usa si fonda su una classe operaia che vive in zone rurali, si sporca le mani nelle acciaierie della rust belt o nei pozzi di petrolio dell’entroterra. Gente certamente meno istruita dei californiani, probabilmente senza alcun PhD (e pertanto considerata inferiore dai dotti) ma che è parte dell’ossatura del paese più potente al mondo.
Gente che non dà molto credito alle vicende di Hollywood o agli edorsement delle star. Gente che ha come priorità l’economia basilare per condurre una vita dignitosa e che nella vita non ha tempo per metabolizzare che sia giusto salutare con un “miao” il collega che si identifica in un gatto. Gente che vede una guerra lontana come un inutile rischio nel quale non impantanarsi e non una missione nella quale fiondarsi.
È giusto, è sbagliato?
Non siamo mica gli americani, citando Vasco Rossi. Non sta a noi dirlo.
Donald Trump, con i suoi grandi difetti, è stato in grado di essere trasversale: di piacere ai proletari, di piacere ai migranti, di piacere all’alta finanza. È stato abile ad allearsi con il più grande genio del nostro tempo, che ha promesso di portare l’uomo su Marte e che ha giurato di sconfiggere il pensiero woke. Non ha mai, neanche per un attimo, peccato della hybris e della supponenza che è ormai diventata un marchio di fabbrica della sinistra mondiale.
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Trump, che piaccia o no, come Berlusconi, ha saputo incarnare alla perfezione i difetti e le aspirazioni della maggior parte degli elettori americani.
E lo ha fatto parlando non al cervello ma alla pancia della gente, tuttavia è stato sufficiente. Perché la controparte non ha proprio parlato, sperando di cavarsela con l’alibi sterile di essere il meno peggio.
Alessandro Bonelli, 6 novembre 2024
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