Non è il primo libro che ci aiuta nella guida alla lettura della Ricchezza delle nazioni, ma è decisamente uno dei libri meglio realizzati. Maria Pia Paganella fa davvero un ottimo lavoro per i tipi della Ibl. Partiamo dalla Scozia ai tempi di Smith. Da poco aveva perso la sua indipendenza, ma aveva conquistato, da provincia povera, uno status di gigante dei commerci internazionali grazie all’incontro con la ricca Inghilterra.
L’illuminismo scozzese si innervava in una società e in una cultura prima cacciatrice e poi contadina che mitigava la «femminilizzazione» della civiltà commerciale, tanto amata da Smith. Il filosofo ed economista scozzese è dunque il prodotto di questo passaggio e di questa cultura, così diversa dall’illuminismo continentale, aggiungiamo noi. La ricchezza delle nazioni, o meglio l’indagine sulla ricchezza delle nazioni, è figlia del metodo sperimentale ed empirico tipico di quell’impasto di esperienze intellettuali: non vuole essere una summa di principi, ma una ricerca. E già dal primo capitolo, Smith imposta la sua rivoluzione economica.
La ricchezza di un paese deriva da due componenti fondamentali: il lavoro e il consumo. Oggi la questione può sembrare banale, ma all’epoca non lo era affatto. È il lavoro e non l’oro o la terra che qualifica la ricchezza di un popolo. Contro la tesi mercantilista che vedeva nella quantità di oro e monete la forza di un regno e contro le ipotesi fisiocratiche che «identificavano il fattore fondamentale per la creazione della ricchezza la terra». Il lavoro inoltre produce beni che talvolta sono utili, ma possono anche essere solo «comodi». Smith infatti ritiene che il secondo fattore fondamentale per la prosperità di una collettività, sia, come detto, il consumo.
«Non è l’accumulazione d’oro ed argento o di prodotti nazionali all’interno del paese ciò che ci rende ricchi. La nostra capacità di consumare ci rende ricchi. L’affermazione può essere letta come un’altra critica indiretta dei mercantilisti che vorrebbero promuovere le produzioni nazionali costose e scoraggiare il consumo di importazioni estere a buon mercato». Una critica ante litteram ai protezionismi. Smith è spesso citato e letto dagli economisti politici per il suo quinto libro, che tratta delle spese e delle entrate del sovrano, insomma del bilancio pubblico, ma il libro è una miniera di intuizioni.
E pensare che tutto ciò fu scritto nel 1776, quando mercati e capitalismo erano solo agli albori. La sua prima edizione andò a ruba: 3500 copie divorate e poi tradotte in tutte le lingue.
Nicola Porro per Il Giornale