Quando De Gasperi pianse a Matera

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È in libreria l’ultima fatica di Fancesco Agnoli, saggista di lungo corso. Si intitola Alcide De Gasperi, Vita e pensiero di un antifascista che sconfisse le sinistre (Cantagalli, pp. 170, 15 euro). La lettura è, come sempre in questo autore, stimolante e consiglio di intraprenderla. Non c’è molto spazio per una classica recensione, e poi chi sia stato quel grand’uomo lo sanno tutti. I più anziani, intendo, perché i giovani non sanno niente del passato e non saprei dire se la cosa interessi loro. Qui mi limiterò a qualche stimolo, così come mi suggerisce l’estro e la memoria.

Eccone uno: quando Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, visitò Matera pianse al vedere dove viveva la gente. Nelle grotte dei c.d. Sassi. Ma se non fosse stato per Mel Gibson quella città non sarebbe diventata ricca qual è oggi. Sì, Pasolini negli anni Sessanta ci girò il suo Vangelo secondo Matteo, ma la città non ne ebbe alcun ritorno di immagine, pur essendo, lui, comunista. Il remake di Ben Hur, Wonder Woman, l’ultimo 007: Matera è oggi la location del mondo, addirittura Capitale Culturale. Ringrazi Gesù (quello di Passion).

De Gasperi, che dovette farsi prestare il cappotto per volare negli Usa, si trovò a competere con un vero genio (terribile) della politica: Palmiro Togliatti. Il quale, alla distribuzione dei ministeri neo-repubblicani, con sorpresa di tutti optò per quello di Grazia&Giustizia. Gli altri, quelli economici (giudicati di solito più importanti) li lasciò a chi doveva impiegare i soldi americani del Piano Marshall (che Stalin gli aveva vietato di accettare). Lui si preoccupò di amnistiare i partigiani che avevano qualche pendenza con la giustizia, di rimpinguare i suoi ranghi con gli ex «fratelli in camicia nera», creare una scuola gratuita per i figli dei militanti (giurisprudenza, onde diventare avvocati e magistrati), farcire le forze dell’ordine con altri ex partigiani.

De Gasperi, data la contingenza che non permetteva altro, si concentrò sulla ricostruzione e sull’hic et nunc. Togliatti, da vero statista, guardava invece al futuro. Ho sentito personalmente, in conferenza, raccontare il seguente aneddoto a Roberto Gervaso (autore con Montanelli di volumi sulla storia italiana): a guerra civile finita due funzionari comunisti si presentarono da un grosso editore italiano e la direzione sbiancò, visto che aveva pubblicato parecchie opere di Mussolini. I due dissero di star tranquilli e si limitarono a segnalare un paio di nomi da assumere, uno a capo della saggistica e l’altro alla narrativa. Ovviamente furono accontentati.  Così, quando la generazione che non aveva visto la guerra divenne maggiorenne fu il Sessantotto.

E, pur nel bel mezzo degli Anni di Piombo, il Pci operò il sorpasso sulla Dc. Alcide, Palmiro. I nomi stessi ci parlano di uomini nati nel XIX secolo e che avevano visto due guerre mondiali (due e mezza nel caso di Togliatti, «Ercoli» in Spagna). Uno era nato nell’Impero Austro-Ungarico, da cui aveva appreso la buona amministrazione e la dirittura morale. L’altro era il comunista più importante dell’Occidente, longa manus di Mosca e ad essa fedelissimo perinde ac cadaver nonché usque ad effusionem sanguinis, infatti fu oggetto di un grave attentato (l’attentatore è ancora vivo) e nell’Urss ci andò a morire. Due lievi ombre offuscano la biografia, per altro specchiata, del primo (che, ricordiamo, è Servo di Dio, cioè candidato alla beatificazione): la querela per diffamazione a Guareschi, il papà di Don Camillo, l’uomo che pur aveva contribuito a fargli vincere le decisive elezioni del 1948. Querela che costò a Giovannino un anno di carcere e ne amareggiò gli anni che gli restavano.

L’altra è il fatto che Pio XII non volle mai riceverlo. Eppure era il cattolico che, per il momento almeno, aveva salvato l’Italia dal comunismo. Ma leggetevi il libro di Agnoli, ch’è meglio.

Rino Cammilleri, 18 ottobre 2021

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