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Quando la prospettiva è rovesciata

pittura prospettiva rovesciata © Natali_Mis e prathan chorruangsak tramite Canva.com

Pensiamo sempre che l’unico punto di vista sia il nostro e ci piazziamo lì davanti alla tela della nostra vita per dipingere secondo la nostra prospettiva. D’altronde è una certezza che abbiamo appreso fin da bambini, quella della prospettiva lineare, in cui un unico punto di osservazione diventa il parametro scientificamente preferibile per una realizzazione pittorica realistica. L’immagine cerca verosimiglianza, prova a strappare cose e persone, prova a costringere atomi vivi su una superficie piana, sostituendo la realtà con la sua apparenza; il principio regolatore kantiano-euclideo ci invita a questo tentativo di naturalismo che, infine, è tutto tranne che naturale.

Pavel Florenskij nel suo meraviglioso libricino La prospettiva rovesciata sostiene invece che: “La pittura non ha come scopo quello di duplicare la realtà, ma di offrire una più profonda comprensione della sua architettonica, del suo materiale, del suo significato; e la comprensione di questo significato, di questo materiale che compone la realtà e della sua architettonica viene fornita all’occhio contemplatore dell’artista attraverso il contatto vivo con la realtà stessa, immedesimandosi in essa e condividendone il sentire”.

Il voler ridurre l’arte a un unico punto di vista, dunque, paradossalmente, al posto di darle vita, al posto di renderla vibrante, la mortifica, perché diventa inganno. Davvero la prospettiva esprime la natura delle cose, come pretendono i suoi fautori? O invece è soltanto uno schema e per giunta soltanto uno dei possibili schemi di raffigurazione, che corrisponde non alla percezione del mondo nel suo insieme, ma semplicemente a una delle possibili interpretazioni del mondo?

Pensiamo ai piatti rilievi egizi; non c’è traccia di prospettiva, eppure, come nota il famoso storico della matematica Moritz Cantor, possedevano già i presupposti geometrici delle raffigurazioni prospettiche. L’assenza della prospettiva diretta presso gli egizi è infatti una dimostrazione della maturità della loro arte, è la liberazione della prospettiva in nome di un’oggettività religiosa e di una metafisica sovrapersonale. Così i bambini: non disegnano secondo le leggi della prospettiva, perlomeno finché non vengono addestrati a farlo in base a modelli precisi.

“È una sorta di indottrinamento, perché per disegnare, dipingere secondo le leggi della prospettiva, bisogna imparare a farlo, e questo vale per interi popoli, intere culture come vale ogni volta da capo per le singole persone”. I disegni dei bambini inoltre non manifestano un pensiero ridotto, bensì un tipo particolare di pensiero che oltretutto può raggiungere qualsiasi grado di perfezione sino alla genialità e talvolta ricordano indiscutibilmente i disegni medievali in cui troviamo quella che si può definire “prospettiva rovesciata”, un modo originale di afferrare il mondo in cui vige il policentrismo delle raffigurazioni.

Il disegno viene costruito come se l’occhio guardasse da diverse angolature, cambiando continuamente posto. Il medioevo, che rinuncia del tutto agli intenti illusionistici, si pone come scopo la creazione non di copie, ma di simboli che diano un impulso spirituale, uno stimolo che desti l’attenzione nei confronti della realtà stessa. L’uomo antico e medievale è un uomo profondamente realista, che sta con i piedi ben piantati per terra, al contrario dell’uomo moderno, che si preoccupa soltanto dei propri desideri e quindi necessariamente dei mezzi più immediati per soddisfarli.

“Il pathos dell’uomo moderno è quello della liberazione da ogni realtà, perché l’“io voglio” detti di nuovo legge a una realtà ancora in costruzione, fantasmagorica, anche se incasellata in una gabbia fatta apposta a tale scopo. Al contrario, il pathos dell’uomo antico, come anche dell’uomo medievale, è quello dell’accettazione, del riconoscimento pieno di gratitudine e dell’affermazione di ogni realtà come un bene, perché l’essere è il bene e il bene è l’essere; il pathos dell’uomo medievale è l’affermazione della realtà in sé e fuori di sé, e perciò stesso è il pathos dell’oggettività. Tipico del soggettivismo dell’uomo moderno è l’illusionismo. Al contrario, non v’è nulla che sia così lontano dalle intenzioni dei pensieri dell’uomo medievale, come l’idea di creare delle copie e di vivere in un mondo fatto di copie”.

Per questo le forme devono essere percepite in base alla loro vita e devono essere raffigurate in sé per sé secondo il modo in cui sono state concepite e non in base alle angolazioni di una prospettiva predeterminata sin dall’inizio. Lo stesso principio vale per le icone russe; chi si accosta per la prima volta viene colpito dai rapporti prospettici inattesi, in stridente contrasto con le regole della prospettiva lineare che gli autori del XIV e XV secolo conoscevano, ma volutamente non utilizzavano.

Caratterizzate da figure curvilinee e sfaccettate non visibili simultaneamente, denunciano una sorta di sacra sproporzione tra le parti, un’irruenza calda e paradossalmente armoniosa e irregolare come la vita. La divergenza delle linee è una trasgressione delle regole della prospettiva rinascimentale, come una prospettiva rovesciata o inversa nella quale le linee divergono anziché convergere verso il fondo. Ogni parte è in una sua personale relazione con l’insieme, da cui non può prescindere per avere senso. Il principio della prospettiva lineare, che è caratteristico di una coscienza disgregata, fa la sua comparsa proprio quando viene meno la solidità religiosa della concezione del mondo e quando la sacra metafisica della coscienza comune del popolo viene corrosa dall’opinione individuale del singolo con il suo singolare punto di vista.

Anche i grandissimi del Rinascimento ci testimoniano il coraggio del genio che, seguendo la propria intuizione, rinuncia, in parte, alle teorie più razionali della prospettiva lineare imperante. L’Ultima cena di Leonardo viola la scala di grandezza, utilizzando unità di misura differenti per i personaggi e per l’ambiente circostante, La Scuola di Atene di Raffaello tiene conto di due punti di vista, disposti su due orizzonti diversi e ne Le nozze di Cana del Veronese ci sono ben sette punti di vista e cinque orizzonti. Con la violazione dell’unità prospettica si manifesta in maniera evidente il dualismo dell’anima rinascimentale, un’anima scissa da cui l’arte ha tratto vantaggio.

La rappresentazione viva è caratterizzata da un continuo fluire, scorrere, un continuo cambiamento, una continua lotta; essa ferve, sfolgora, palpita ininterrottamente e, nella contemplazione interiore, non si arresta mai all’arido schema delle cose.  Il pittore, dunque, può e deve raffigurare la propria rappresentazione della realtà, ma non può trasportarla su tela, può offrirci un mosaico dei suoi momenti singoli più significativi. L’osservatore avrà così una sintesi vivida, pura e sarà scosso da vibrazioni corrispondenti. E per l’appunto queste vibrazioni, quando trascinano l’uomo verso la liberazione e la spiritualità, sono lo scopo dell’arte.

Fiorenza Cirillo, 6 giugno 2024

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