L’eticizzazione della politica è forse il nemico più insidioso della società aperta. Essa significa che la dialettica sociale è una dialettica morale: non si confrontano valori diversi, progetti politici diversi, interpretazioni diverse di quello che è l’interesse pubblico ma si affrontano le forze del Bene da una parte e le forze del Male dall’altra. Lo sconfitto non merita di perdere perché non è riuscito a convincere gli altri della validità del suo programma di governo ma in quanto si pone al servizio di interessi occulti, di ambizioni inconfessabili.
È a partire dalla Rivoluzione francese che i protagonisti del conflitto politico e sociale non stanno sullo stesso piano giacché gli uni sono i difensori del Privilegio e dell’Ancien Régime e gli altri i paladini del Progresso e dell’Umanità. Non tutte le guerre tra stati che ne sono seguite hanno avuto il marchio dell’ideologia, beninteso: quella tra la Prussia e l’Austria, nel 1866, ad esempio, era una guerra tra ‘ragioni di Stato’ incompatibili. A Sadowa il vincitore non vedeva nel vinto un essere spiritualmente e moralmente diverso da lui (a parte l’ovvia appartenenza alla stessa comunità linguistica) e gli stessi patrioti italiani del Risorgimento odiavano, sì, gli Austriaci ma, per citare il Giovanni da Procida di Giovanni Battista Nicolini, dicevano di loro ‘ ripassin l’Alpi e tornerem fratelli’.
Almeno fino alla prima guerra mondiale, la politica si tenne lontana dallo spirito di crociata e l’esempio della Grande Nation che invadeva il vecchio continente per portarvi i lumi e il riscatto dalla servitù non venne seguito da nessun governo. È vero che tutto parve finire coi cannoni di agosto ma anche nel corso dell’«inutile strage» vi furono filosofi, nel senso alto del termine, come Benedetto Croce e Giovanni Gentile, che ricordavano agli Italiani che gli Imperi centrali e gli Alleati dell’Intesa facevano parte di una stessa civiltà e che se le grandi creazioni dell’arte, del pensiero, della scienza non conoscevano confini non pertanto si era esonerati dal dovere di servire la patria in guerra.
La deideologizzazione del conflitto bellico parve allora cinico realismo ma era, invece, la quintessenza della ‘saggezza dell’Occidente’, la divisione tra politica e morale, tra scienza e religione, tra diritto ed economia. Una politica sbagliata, tale da comportare immani sacrifici di vite e di risorse materiali per un popolo comportava la fine di una classe dirigente ma la responsabilità politica per quanto tale classe aveva operato non si convertiva in responsabilità morale e tanto meno in rinvio a giudizio. Con la Grande Guerra e il successivo avvento dei regimi totalitari — fascismo e comunismo — lo scenario muta radicalmente: dall’altra parte del campo di battaglia non stanno eserciti al servizio di Stati che hanno come obiettivo l’incremento di potenza, l’allargamento dei confini, la conquista di posizioni strategiche in grado di renderli invulnerabili, ma ci sono: per i tedeschi, la Kultur della sana nazione germanica contro la Zivilisation del corrotto Occidente; per gli anglo- francesi e i loro alleati, i Lumi e la Democrazia contro l’autoritarismo e la servitù dei popoli di Imperi ormai condannati dalla Storia.
Con le rivoluzioni totalitarie, di destra e di sinistra, la spiritualizzazione e l’eticizzazione della politica si assolutizza: i nemici del Volk tedesco sono gli agenti di Satana che hanno in mente lo sterminio e lo sradicamento di una razza superiore per bellezza, intelligenza, coraggio, creatività; i nemici della classe operaia sono i borghesi avidi e corrotti disegnati da Georg Grosz che, per salvaguardare le casseforti, mobilitano il Lumpenproletariat allo scopo di arrestare la marcia inarrestabile del progresso umano.
Sono cose scontate e spesso lette nei libri di storia e filosofia politica. Ciò a cui non si è prestato sufficiente attenzione — ma le eccezioni non mancano a cominciare da François Furet – è il fatto che gli antitotalitari hanno ereditato dai loro avversari l’attitudine scellerata a cancellare i confini tra politica e morale: il nazista considera comunisti e liberaldemocratici figure del Male e comunisti e liberaldemocratici lo ripagano della stessa moneta e, bollandolo come un delinquente costituzionale, folle sì ma non al punto da doverglisi negare ogni senso di responsabilità, lo sottopongono al Tribunale e lo condannano come se fosse un volgare assassino o un brutale gangster. Al nemico (fascista o comunista) non si riconosce nessuna etica, nessun intento altruistico, nessuna filosofia. Chi è disposto a dare la vita per un ideale — quale che esso sia – non si distingue dal criminale che agisce unicamente per arricchirsi e non esita a uccidere per impadronirsi dei beni altrui.
Intendiamoci, la violenza totalitaria (di cui il giacobinismo va considerato come l’alba storica) è qualcosa alla quale gli uomini e i governi liberi hanno il dovere di reagire, nelle forme e nei modi più spietati ed efficaci ma, se il virus totalitario non li ha contaminati, debbono farlo con lo spirito di chi si batte pro aris et focis (“per dio e per la patria”) contro un nemico che li minaccia: è una guerra che va condotta contro un invasore ‘interno’, che rappresenta una minaccia mortale, non un’operazione di bonifica del mondo dalle forze infernali. Per il cittadino della ‘società aperta’ la lotta al totalitarismo è un’operazione politica che impone, per la salus rei publicae, di adottare la massima ‘ mors tua, vita mea’. Ma ciò non significa un’illecita invasione dello spazio etico, il misconoscimento che anche rossi e neri agiscono in nome di principi ed hanno una loro morale, che, per il fatto di non essere la nostra, non è destituita di ogni valore umano.
In fondo, voler preservare un’identità etno-linguistica, che affonda le sue radici nella storia, o voler il trionfo dell’eguaglianza e la fine dello ‘ sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo’ non sono segni di abiezione spirituale. È l’assolutizzazione di quei principi, la cancellazione violenta di tutto ciò che sembra loro opporsi, la fine delle libertà civili e di quelle politiche riguardate come ostacoli al trionfo della ‘ buona causa’, il buco nero della civiltà europea da due secoli a questa parte. Non tutto ciò che attenta alla nostra esistenza, al nostro stile di vita, ai nostri costumi, alle nostre fedi viene da Lucifero e dagli abissi della Geenna. È questa consapevolezza, in definitiva, che distingue la ‘ mente liberale’ dalla ‘ mente totalitaria’: la prima, a differenza della seconda, non vede nell’altro un verme immondo sotto apparenze umane, lo ammazza senza esitazione se lo ritiene pericoloso ma non lo consegna all’Inquisitore o al giudice.
Se di tutto questo si fosse edotti, da un lato, si avrebbe un ben diverso atteggiamento nei confronti di quanti restano fedeli a certe memorie ovvero a ideologie che le costituzioni democratiche non possono non condannare ma che riempiono ancora oggi i cuori dei sopravvissuti delle guerre civili europee e dei loro eredi (non si era comunisti per amore del Gulag, né nazisti per amore del Lager ed è il ricordo delle storie vissute, dei pericoli corsi, delle solidarietà tra camerati o tra compagni, che si traduce in motivi di orgoglio e attiva momenti di commozione); dall’altro, verrebbe allo scoperto tutto l’assurdo insito nel considerare offensivo un giudizio sul proprio operato che faccia riferimento (a ragione o a torto) a comportamenti giudicati ‘fascisti’ — in Italia per evidenti ragioni storiche non è considerato altrettanto offensivo il dare a qualcuno del ‘comunista’. Magistrati, alti funzionari dello Stato, docenti universitari, questori, prefetti giudicati fascisti sono sempre pronti a ricorrere in giudizio e spesso si vedono risarciti, per l’ingiusta accusa, con ingenti somme di denaro (la vil pecunia lava le offese più della lama dei duelli d’ancien règime).
Sennonché, a ben riflettere, c’è una differenza abissale tra l’essere accusati di precisi reati previsti dal codice penale ( furto, violenza, privata, concussione, corruzione, stupro etc.) e il vedersi attribuire idee e visioni del mondo dalle quali si pensa di essere lontani. Se a ciascuno venisse attribuito il diritto di sanzionare le interpretazioni – in termini di idee, di valori, di fedi – che si danno del proprio operato si avrebbe una gravissima violazione dei diritti di libertà. Spiegare un’azione, una sentenza, una qualsiasi decisione amministrativa con l’ideologia dell’autorità che ne è responsabile può essere sbagliato ma non ci sono criteri infallibili per accertarlo, giacché ci troviamo nella dimensione dell’opinione (doxa) non della verità (aletheia).
Alberto Ronchey scrisse di Francesco De Martino che aveva l’agilità mentale di un pianificatore (comunista) bulgaro, se avesse parlato di un programmatore fascista avrebbe potuto essere querelato: c’è una logica in tutto questo?
Il fatto è che, in Italia, a certe ideologie — che per nostra fortuna non determinano più l’etica pubblica – non si riconosce neppure l’ombra di una valenza etica giacché vengono, consapevolmente o meno, assimilate a mere espressioni delinquenziali. Ne deriva che per un giornalista scrivere che una sentenza puzza di fascismo diventa passibile di condanna come se avesse scritto che il giudice ha agito per un suo tornaconto personale, per arricchirsi in maniera illecita, per ottenere le simpatie o i favori dei ‘ nostalgici’ etc. etc. È assolutamente vietata un’esegesi volta a dimostrare che i valori, i principi, ai quali quella sentenza si ispira non fanno parte delle virtù democratiche ma risentono di vecchi modelli autoritari, etichettati per comodità semantica come fascisti.
Siamo tornati alle età premoderne che riconoscevano la libertà solo come libertà di dire il bello, il vero, il buono e consideravano l’autorità (soprattutto giudiziaria) non meno sacra e intoccabile di quella rivestita dagli antichi tribuni della plebe. Certo l’interpretazione del giornalista potrebbe essere ingiusta e tendenziosa ma se questo fosse il caso, lo attenderebbe una sola sanzione: quella dell’opinione pubblica, una sanzione che si traduce in discredito e ritiro di stima e, forse, nella perdita della direzione del giornale, qualora l’editore riceva pressioni in questo senso.
Non sono un esperto di codici penali e so che esiste un’ampia letteratura sul vilipendio, la diffamazione a mezzo stampa, l’ingiuria etc. Come liberale, però, trovo sommamente auspicabile che si possa perseguire unicamente chi mi dà del ladro — o mi accusa di altri gravi reati contro le persone e i beni del prossimo – ma non chi mi dà del fascista, giacché nel primo caso siamo nel dominio del certo – nel senso che si sa di cosa stiamo parlando – nel secondo siamo nella dimensione dell’opinabile giacché chi impiega il termine fascista per offendermi, può riferirsi a vari aspetti del mio agire o del mio pensare non necessariamente riprovevoli. Mi si potrebbe dare del fascista, ad esempio, perché sono contro l’accoglienza o contro una larga autonomia regionale, perché voglio pene più severe per gli scassinatori o perché voglio mettere al bando l’uso delle droghe anche leggere. Pensarlo è reato?
Si è detto—ed io sono d’accordo—che il ‘politicamente corretto’ prelude all’erosione sempre più preoccupante delle antiche libertà occidentali. Ma la condanna di chi mi dà del fascista non è una forma di imposizione del ‘politicamente corretto’? Non significa il riconoscimento del mio presunto e insindacabile diritto ad essere giudicato come a me piace? E se qualcuno, pensando a Stalin, a Mao, a Pol Pot ritenesse offensivo essere definito ‘ comunista’ da Silvio Berlusconi perché non gli sarebbe consentito portarlo in giudizio?
Certo la nostra Costituzione si richiama all’antifascismo ma non all’anticomunismo e pertanto nessuno potrebbe lamentarsi di essere qualificato come bolscevico. Sennonché se uno non si sente comunista – e anzi odia tutto ciò che sa di falce e martello — perché dovrebbe venire discriminato rispetto a chi non si sente fascista e ha il diritto di ricorrere in giudizio contro chi lo giudica tale?
Ho il malinconico sospetto che qui ci stiamo davvero giocando la libertà di opinione e che la libera stampa si ritrovi alla mercé di quella che Angelo Panebianco ha chiamato, con felice espressione, la ‘ democrazia giudiziaria’.
In una società democratica, nel senso della ‘ democrazia dei moderni’, la libertà di critica dovrebbe essere totale, sempre che non si tiri in ballo un illecito penale. Come non dovrebbe esistere un reato come il ‘vilipendio al Capo dello Stato’ – e diverrebbe lecito scrivere, ad esempio, che la scelta dei cinque senatori a vita da parte di Giorgio Napolitano fu dettata dall’intento di aiutare il governo Prodi: tutti e cinque i nominati appartenevano a una determinata area culturale, non era mai capitato nella storia della Repubblica! Alla stessa maniera nessuno scudo istituzionale dovrebbe proteggere dalle critiche un magistrato.
La ‘ società aperta’ comporta la libertà di giudicare discutibile e persino scandalosa una sentenza del Tribunale proprio come un qualsiasi atto del governo o decisione di un’autorità amministrativa, accademica, militare. Spiegare un comportamento del potere significa stabilire legami di causa ed effetto e questi si fondano su ipotesi, su congetture, su analogie, su probabilità il cui statuto logico non può essere mai quello delle scienze esatte. Se il nesso causale è fallace lo diranno i fatti, le opinioni che se ne fa la gente e che i giornali registrano puntualmente.
La logica inquisitoria e manichea, che da tempo segna la nostra political culture non si rassegna alla libertà d’interpretazione senza la quale la libertà di espressione è «fumo in aere od in acqua la schiuma».
Quando ci sono interpreti autorizzati dei fatti in virtù della loro posizione istituzionale, si finisce per affidare ad essi anche la competenza in fatto di interpretazione storica. Il divieto di dare del fascista a un magistrato rientra nella stessa logica che gli dà il diritto di condannare a pene severissime lo storico negazionista. Né all’articolista che lo critica né allo storico — che, sulla base di argomentazioni sicuramente discutibili, crede di dimostrare che i campi di sterminio furono un’invenzione dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale – viene riconosciuta la libertà di pensare quel che si vuole e di farla conoscere al pubblico dei lettori – di libri o di giornali.
L’ideale resta quello delle società teocratiche in cui i detentori dell’autorità non solo governano i popoli ma fissano le ‘verità di Stato’ per le vicende del passato cariche di simbolismi ed elevano a dogma l’assoluta imparzialità del giudice che indaga sui reati commessi dai cittadini. In virtù di questa logica perversa, parlare di ‘ giustizia a orologeria’ o meravigliarsi del fatto che in meno di un anno su un leader politico siano piovuti più di settecento capi d’imputazione, può esporre a condanne pesanti e alla perdita dei propri beni. Se questa non è ‘ democrazia giudiziaria’, cos’altro è?
Dino Cofrancesco, Il Dubbio 16 marzo 2019