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Quando Re Carlo si tolse le scarpe a pranzo con Andreotti

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“Carlo d’Inghilterra non è affatto il ‘picchiatello’ sfottuto dalla satira, anzi mi hanno impressionato la sua sensibilità per l’ambiente e per l’architettura dei territori. Sempre che la mamma lo lasci fare…”. Questo il giudizio di Giulio Andreotti nel 1985, al termine di un pranzo, a Roma, officiato dall’irresistibile Giuseppe Ciarrapico, in onore di Carlo e Diana, fascinosa ed enigmatica nel suo spolverino color salmone.

Continua Andreotti: “Abbiamo parlato della sua idea (ndr poi realizzata) di insediare temporaneamente nella Tuscia la sessione estiva della ‘Summer School in Civil Architecture’ da lui fondata e articolata in tre gruppi: Oxford, Roma (British School) e Bagnaia, appunto”.

Due i momenti di divertissement assoluto per i dieci convitati. Il primo, quando alcuni notarono che l’allora principe di Galles si era tolto le scarpe: “pedalini reali”, commentò divertito il Divo con i figli.

Il secondo, più esilarante di una commedia di Aldo Fabrizi: dopo la seconda portata, mentre i camerieri in livrea apparecchiavano i preziosi piatti da dessert, l’istrionico e geniale Peppino Ciarrapico, alzatosi rumorosamente da tavola per dirigersi verso la cucina, tornò trionfante con una maestosa millefoglie della pasticceria Cavalletti. Avvicinatosi pericolosamente, quasi caracollando, alla principessa Diana, le disse tronfio: “Questo è il dolce romano preferito dalla Regina”, abbozzando qualcosa in inglese che assomigliava a “cake queen”. E lei, glaciale: “I don’t eat sweets”. A quel punto ‘er Ciarra’, rivolgendosi ad Andreotti che chiamava “il Principale”, fan della prima ora del suo modo unico di fare, sussurrò: “‘Na fregnaccia, eh?”. Il Presidente, ghiottissimo, per smorzare l’aria: “Mangiamolo subito intanto, il principe Carlo apprezzerà anche per Sua Maestà”.

I rapporti tra Andreotti ed Elisabetta II furono sempre molto cordiali e accomunati da una grande passione: l’ippica. Nei suoi diari, Andreotti ricorda di quando, a Buckingham Palace, la Regina gli raccontò quanto le fossero cari i cavalli e di quanto fosse triste perché un puledro di un anno, il migliore di un lotto, era stato abbattuto il giorno prima”. Sull’onda dei ricordi, imperdibile il nuovo libro, in uscita il 22 settembre, di Giulio Andreotti Cara Liviuccia. Lettere alla moglie, pubblicato da Solferino: una straordinaria storia d’amore, iniziata in un Cimitero, vissuta in simbiosi per ben 68 anni e raccontata, tra il 1946 e il 1970, attraverso corrieri e lettere scritte con la stessa tempestività e frequenza degli attuali WhatsApp, a cadenzare i momenti della giornata.

Come narra Giuseppe De Rita in una prefazione da antologia, queste lettere testimoniano che egli poteva anche compiacersi della “sua grazia di Stato”, ma nell’agostiniano “interior intimo meo”, il centro della sua vita è sempre stato il rapporto coniugale con Livia.

Ma anche se nelle missive vergate nei momenti liberi, con certosina ricchezza di particolari minimalisti, si passa dagli ottimi risultati scolastici dei figli ai lavori in casa, da De Gasperi a Segni, da Papa Montini a de Chirico, dal Consiglio dei ministri ai vertici Nato, ai viaggi in mezzo mondo, qual è, da sempre, il sale dell’amore? La gelosia.

Ed ecco che Giulio tranquillizza la sua Liviuccia in vacanza mentre lui trascorreva l’estate a Roma, tra impegni pubblici, privati e raccomandazioni. Un esempio, datato 1961: “Ieri sera al telefono mi sembravi un po’ ‘sostenutina’ con la minaccia di far, non ho ben capito che, in rappresaglia a non so bene cosa avrei fatto io. Ma è segno di affetto per me e me ne pavoneggio”.

Oppure, tra le incombenze del collegio elettorale, nel 1946 racconta alla moglie, a volte chiamata “Cara Ostrica”, di alcune seccature “tra le quali il trasferimento di un commissario di polizia al quale la moglie mette le corna. Di che cosa mai ci si deve occupare”. Oppure, quando nel 1947, ad un certo punto, le scrive: “Ho avuto un’eccezionale visita di omaggio: la Magnani. Le solite fotografie…”. E altri frammenti quotidiani di vita comune, come quando nel 1958 per mangiare andò al Passetto: “Mancavo da anni, ma non ci tornerò presto per i prezzi salatissimi”.

E, anche allora, non mancava qualche gossip. Siamo nel 1959: “Ieri sera ho cenato a Tor Carbone (via Appia) con l’editore Rizzoli. Mi ha detto che la Lollobrigida si separa dal dottor Škofic, seccato quest’ultimo per le attenzioni della moglie verso Frank Sinatra: che brutto mondo!” O dettagli minimi, che solo due sposi affiatati si possono scambiare, mentre era alle terme: “Alle 8.30 sono andato alle acque. Il saporaccio è tale che ho comprato una bottiglia di dentifricio liquido Botot per cancellarlo”. O commenti sul ménage familiare nel 1960: “Tra i visitatori è venuto Bolaffi a portarmi il catalogo dei francobolli del ’61: la sede vacante è salita a lire 700 la serie (valore nominale di emissione lire 100)… La tua pelliccia assume contorni concreti”.

E ancora, momenti di intima soddisfazione alla donna a cui ha delegato l’educazione dei suoi figli e senza la quale non sarebbe stato quello che è diventato. Nel 1963, le scrive: “La nomina a Papa di Montini mi ha fatto ricordare quanto una volta mi disse De Gasperi: «Non la conoscevo abbastanza nel 1947 e chiesi a monsignor Montini un parere sulla scelta di Lei per sottosegretario alla Presidenza; me lo dette molto incoraggiante e positivo». Un Papa saggio, dunque…”.

Una raccolta di lettere tutta da leggere, che racconta, in uno stile informale e schietto, tra aneddoti, riflessioni e notizie, trent’anni della storia e dei costumi dell’Italia del tempo. E lo fa attraverso le confessioni più intime e genuine di uno degli uomini più amati e più discussi del nostro Paese, dalle quali la sua nomea di Belzebú esce completamente a pezzi mentre si conferma l’immagine di un popolano romano che, con la moglie in vacanza, va al massimo alle corse di cavalli, dorme in convento, apprezza i gelati e la buona tavola e non perde una messa.

A parlarne, il prossimo primo  ottobre alle ore 11 a San Salvatore in Lauro, un parterre de roi: Barbara Palombelli, Gianni Letta e Giuseppe de Rita, moderati da Barbara Stefanelli e alla presenza dei figli dello statista della Dc, Stefano e Serena, che in questi anni, con devozione assoluta, hanno fatto riemergere in tutta la sua grandezza e con massiccio dispendio di energia la figura del loro “Babbo” e di quella che in casa tutti chiamavano, a ragione, la Marescialla, l’unica che faceva filare dritto Giulio. Oggi come allora, il potere è donna.

Luigi Bisignani, Il Tempo 18 settembre 2022