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I fuochisti della vaporiera ricossa (Sergio Ricossa)

Quanto è attuale la visione di Sergio Ricossa

I fuochisti della vaporiera, è un pamphlet delizioso, di Sergio Ricossa. Ha fatto molto bene Ibl a ripubblicarlo. Il sottotitolo, «Gli economisti del consenso», fornisce subito una chiave di lettura.

Il grande economista torinese gioca sempre con la sua professione, ne conosce vizi e virtù. E ne svela sempre i suoi conformisti tic. L’economia, d’altronde, segue le mode.

In fondo durante il fascismo, scrive, bastava cambiare la copertina di un proprio libro, inserendo la parolina magica «corporativo» perché il regime, indipendentemente dal contenuto, apprezzasse. Passarono gli anni ed era sufficiente aggettivare uno sciopero, una manifestazione o una rivendicazione come «corporativa» per ottenere l’effetto esattamente opposto dal nuovo sistema democratico.

Ma dove la penna di Ricossa si diverte di più è nel descrivere la moda Keynesiana. Il libro è del 1978 (tranne che per una interessante appendice che rappresenta l’esordio del giovane economista ventiquattrenne); oggi i medesimi concetti potrebbero essere traslato sulla rinnovata moda egualitaria del pinkettismo.

Ma ritorniamo al nostro inglese. La prima spassosa considerazione è che dopo di lui i nostri economisti non saranno più gli stessi. Non tanto per l’elaborato dei propri pensieri, ma per il loro vocabolario, per le astruserie anglofone che diventeranno, da Keynes in poi, obbligatorie.

E ancora: «La moda keynesiana si poteva dimenticare, ma non il gusto che aveva suscitato per i posti di sottogoverno. Per ogni miliardo di denaro pubblico speso, occorreva un posto direttivo adatto a un economista. Si dubitava che Keynes avesse fornito una buona ricetta per la piena occupazione in generale; la ricetta era però infallibile per la piena occupazione degli economisti. Le università pagavano e pagano assai meno di Iri, Eni, Imi, banche pubbliche et similia».

La veloce cavalcata nel keynesismo non solo ci racconta le debolezze della nostra classe dirigente, ma anche i deficit culturali di quella dottrina e della pianificazione che ne seguirà: «La fede occorre per andare in paradiso, non per andare in porto».

È certamente vero, parafrasando il Nostro, che senza la rivoluzione industriale, Marx sarebbe stato un pastore senza pecore e dunque senza Keynes probabilmente Hayek e Friedman sarebbero come minimo stati economisti senza Nobel. Ma all’epoca Ricossa non poteva saperlo, immerso come era in un clima di conformismo culturale, in cui si batteva praticamente solitario.

Favolosi i suoi apprezzamenti, certamente oggi come ieri poco graditi dall’establishment, sulla fragilità delle tesi di economisti come Andreatta o Toniolo, che, oggi come ieri, sono praticamente considerati dei mostri sacri del pensiero economico e non già dei banali traduttori della Teoria generale.

Testo più citato che letto. Non altrettanto si può dire di Ricossa: i pochi che lo citano, lo hanno divorato. È una lettura favolosa, moderna, sfrenata nella sua anticonvenzionalità che mantiene intatta nonostante i quaranta anni dalla sua prima elaborazione.

Nicola Porro, Il Giornale 23 aprile 2017