Nascondersi dietro il “più antico marchio di banca del mondo” è una delle ultime invenzioni che la politica italiana (o almeno una sua parte) si è proposta per giustificare la permanenza dello Stato nel capitale di Mps. A questo punto non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno teorizzasse la necessità di una banca a capitale pubblico per gestire meglio il Pnrr. Le follie dello Stato imprenditore generano mostri. Non da oggi. Non solo per le sorti del Monte dei Paschi di Siena. C’è una costante in tutto ciò: lo sperpero di denaro pubblico, cioè la metodica dissipazione delle risorse drenate dalle tasche dei cittadini attraverso l’imposizione fiscale, invece che la loro conversione su obiettivi di interesse nazionale.
Liquidate le richieste di Unicredit (che per accollarsi il sistema Mps aveva chiesto al Mef circa 8 miliardi) c’è la certezza che ai 5,4 miliardi “spesi” dallo Stato nel 2017 per il “salvataggio” della banca più antica del mondo, se ne aggiungeranno entro l’anno altri 2 per ricapitalizzare l’Istituto, e altri 4 almeno per rendere appetibile la banca a un altro interlocutore, meno rigoroso nella richiesta dei tagli al personale (circa un terzo degli attuali 21mila dipendenti). Sempre che la Commissione europea non sanzioni il nostro Paese che si era impegnato a restituire al mercato Mps entro la fine del 2021. La scadenza dovrà comunque essere rinegoziata.
In meno di cinque anni lo scherzetto Mps costerà poco più di undici miliardi ai contribuenti italiani. Più o meno quanti ne sono stati buttati – negli ultimi dieci anni – nel buco nero di Alitalia, prima di far decollare Ita. Con buona pace di commissari (da Luigi Gubitosi a Daniele Discepolo, Enrico Laghi e Stefano Paleari fino a Giuseppe Leogrande) – e decine di consulenti dei commissari – che si sono succeduti con analoghi insuccessi (ma con personali soddisfazioni retributive) nella cabina di pilotaggio della ex compagnia di bandiera.
Altri 5-6 miliardi mal contati sono le risorse bruciate negli altoforni dell’Ilva, durante la stagione dell’esproprio dai Riva fino all’acquisizione della maggioranza del capitale da parte dello Stato italiano (con Invitalia), attraverso le cure di 5 governi diversi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte), 4 commissari (Enrico Bondi, Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi) e un sub commissario (Edo Ronchi). Con il risultato di non avere più la siderurgia italiana. Così come non possiamo più contare alcuna leadership nel trasporto aereo. E per le banche, meglio tacere per carità di patria.
Poco meno di 30 miliardi che gli italiani hanno pagato più o meno a loro insaputa. Avremmo potuto finanziare una manovra più incisiva di quella immaginata per quest’anno, con una riduzione del cuneo fiscale che avrebbe prodotto sensibili aumenti nelle tasche di milioni di lavoratori e un alleggerimento dei costi di impresa per migliaia di aziende. Per gli amanti del genere, avremmo potuto avere risorse per pagare per quasi quattro anni il reddito di cittadinanza a meritevoli e profittatori.
Avremmo avuto le risorse per finanziare Quota 100 per altri tre anni. Avremmo potuto costruire più o meno quattro ponti sullo Stretto di Messina. Avremmo potuto ammodernare tutta la rete stradale di interesse provinciale e quella autostradale. Avremmo potuto ricostruire Amatrice, Norcia e tutta l’Italia centrale che da cinque anni aspetta di vedere rimosse anche le macerie del sisma del 2016. Avremmo potuto…
Antonio Mastrapasqua, 29 ottobre 2021