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Quelli che non c’erano ad Hammamet

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Conte, Zingaretti e Renzi dei piccoli “leoni codardi”, come li definirebbe oggi il mago di Oz nel ventennale dalla morte di Bettino Craxi. Ad Hammamet, nel dedalo di viuzze bianche della Medina si sente parlare solo italiano ma dei tre non c’è traccia. In migliaia sono arrivati dall’Italia, i più con un garofano rosso in bella vista, hanno preso d’assalto, sin da venerdì, il piccolo cimitero cristiano della città. Una folla in pellegrinaggio fin sulla collina, presagicamemte soprannominata “degli sciacalli e dei serpenti”, dove si erge quella che non è certo una reggia, ma una normalissima casa, senza neanche vista mare.

Non una dorata latitanza, ma un esilio volontario durato sei anni, fino alla fine dei suoi giorni. Con qualche puntata sulla spiaggia isolata nella zona di Salloum, sotto la capanna in canniccio costruita, in segno di amicizia e stima, dai pescatori locali appositamente per lui, “Monsieur le Président”, come ancora in questo luogo affettuosamente lo chiamano. Eppure, nella ricorrenza dei vent’anni dalla morte di Bettino Craxi, sono assenti in contumacia i tre uomini di sinistra, quelli della “svolta”, e non tanto per venire a riabilitare l’ex leader socialista, che forse non ne ha più neppure bisogno, bensì per chiudere una pagina di storia e riaprirne un’altra. Ma è un discorso per statisti, non per le comparse di questi tempi.

Giuseppe Conte, attuale presidente del Consiglio, che in queste zone inutilmente viaggia come un beauty-case, avrebbe potuto avere almeno il senso istituzionale di recitare una preghiera sulla tomba di un suo  predecessore. Per un baciapile come lui, sarebbe stato un modo riguardoso per onorare il santino di Padre Pio che ha ormai cucito nel taschino e gli insegnamenti del suo nume tutelare a Villa Nazareth, il cardinal Silvestrini. Ma, si sa, la parte dell’umile non è proprio prevista negli svariati copioni dell’ex avvocato del popolo. Da Craxi, almeno in politica estera, avrebbe dovuto imparare come restò con la schiena dritta davanti agli Usa nella crisi di Sigonella. Senza bisogno, come invece ha fatto lui, di genuflettersi a Donald Trump, cercando di favorire le scorribande italiane di un Procuratore a stelle e strisce in cerca di notizie, con la complicità di un Generale dei Servizi di sicurezza di sua fiducia.

Avrebbe anche potuto rapidamente approfondire la storia di Craxi ad Hammamet, soffermandosi su una mostra fotografica e guardando un documentario di Sky, dove si confronta alla pari con colossi come Mitterand, Kohl e la Thatcher. Andreotti, che fu suo Ministro degli Esteri, ricordava sempre, un po’ divertito e un po’ incredulo, che Craxi, a differenza sua, studiava poco i dossier, ma riusciva sempre, con pochi interventi, a polarizzare le discussioni.

Per Nicola Zingaretti, invece, il ventennale della morte di Craxi rappresenta un requiem. Il requiem per un partito, il Pd di oggi, incapace, analogamente al vecchio Pci e ai Ds, di leggere i grandi momenti della storia e di fare autocritica o passi avanti. Una maledizione che si perde nel tempo, dai fatti di Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, fino al Muro di Berlino e, in Italia, a Mani Pulite. Con segretari di partito che partono illuminati, ma poi finiscono opachi e manettari. Ci cascò perfino quel fine cinefilo di Walter Veltroni, che a Torino aveva disegnato il “New Deal” italiano, per poi convertirsi al dipietrismo dell’ex poliziotto di Tangentopoli. Così Nicola Zingaretti, che doveva far rinascere l’anima più nobile della sinistra italiana, è finito imprigionato dal più bieco dilettantismo giustizialista del grillismo, ricacciando al centro e a destra tutti quelli che, con simpatia, credevano nel suo nuovo corso.

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