Nei Souvenirs d’enfance et de jeunesse, il grande Ernest Renan, ateo e positivista, rievoca con rispetto quel clero da cui era uscito nel 1845, lasciando il prestigioso Collegio di Saint Sulpice. La scienza, di cui era cultore appassionato, era entrata in conflitto con la fede e lo aveva indotto a una rottura per lui penosa. Mi viene in mente Renan ogni volta che leggo gli articoli su La Stampa di Flavia Perina.
L’ironia, il disprezzo, talora l’astio, che rovescia sulla destra italiana e le sue varie componenti -nazionalista, populista, sovranista – non sarebbero diversi se scrivesse per Il Foglio, per Il Fatto quotidiano, per Domani. L’aver diretto per undici anni Il Secolo d’Italia non significa certo che le sia vietata una diversa scelta di campo e, tuttavia, est modus in rebus. Vuol farsi perdonare le idee di ieri con il radicalismo di oggi, come tanti intellettuali fascisti che dopo il 1945 prendevano la tessera del Pci? Non ho nulla a che fare col mondo ideale da cui proviene Flavia Perina ma vi ho conosciuto persone perbene, studiosi tutt’altro che mediocri sotto il profilo intellettuale – da Giano Accame a Marcello Veneziani a Gennaro Malgieri, per limitarmi a questi.
E anche ora, pur estraneo al sovranismo nazional-populista, non esito a riconoscere che i suoi teorici non sono malati mentali o criminali e che spesso rappresentano (proprio come il fascismo storico) una risposta inadeguata a problemi reali, che non si sono inventati loro – proprio come ha rilevato, parlando di Donald Trump, un giornalista di sinistra suo antipatizzante, Federico Rampini di Repubblica.
Flavia Perina, che è una brava giornalista, dovrebbe rinunciare a fare la parte della neofita fanatica e descrivere “senza incensi e senza veleni” – per citare un’espressione di un suo vecchio camerata, Mino Caudana – un ambiente e una political culture che senz’altro conosce meglio di altri.
Dino Cofrancesco, 23 novembre 2020
Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università di Genova