Quelli ossessionati dal populismo

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Speciale zuppa di Porro internazionale. Grazie a un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri.

Martin Wolf dopo una carriera brillante da economista, è da tempo condirettore del Financial Times e capo della sezione dei commenti economici, e con questo ruolo ha scritto negli anni tanti scenari, in gran parte con punti di vista originali e spesso singolarmente acuti.

Da qualche anno a questa parte è diventato, però, uno dei tanti ossessionati dal pericolo del sovranismo e del populismo. In questa chiave un suo articolo sul quotidiano della City (e del Nikkei) del 23 aprile denuncia l’emergere, anche in democrazie ben consolidate, di figure carismatiche tendenzialmente (e talvolta fattualmente) dispotiche, figlie della rabbia e della paura.

In questa categoria il noto commentatore economico ci mette dentro di tutto: da Vladimir Putin a Recep Erdogan, da Narendra Modi a Nicolàs Maduro, da Rodrigo Duterte a Jair Bolsonarom, da Benjamin Netanyahu a Matteo Salvini e Donald Trump,

Da un decennio assisteremmo, sempre secondo Wolf, a un declino globale della salute della democrazia, all’emergere di “platoniani” protettori della “gente comune” contro gli stranieri, le minoranze e le élite traditrici, politici con tratti narcisistici o psicopatici, con una strategia di dominare i poteri neutrali (quello giudiziario e inquisitorio, le authority, i servizi), poi i media, infine sovvertire i meccanismi elettorali, delegittimando le opposizioni e spargendo fake news. Costoro approfitterebbero della disperazione della gente comune e conterebbero anche sulla complicità di quei settori economici che vogliono farsi abbassare le tasse.

È incredibile come un commentatore così raffinato in campo economico possa proporre analisi politiche così poveramente propagandistiche.

La chiave per comprendere questo fenomeno è il punto di vista assolutamente astratto con cui Wolf interpreta la realtà dei processi politici: secondo lui la democrazia sarebbe un sistema in cui tutti dovrebbero sostenere la stessa cosa perché ci sarebbero apposite idee giuste validate da testimoni come i commentatori del Financial Times. Di fatto si cerca di contestare alla radice l’idea che il conflitto di idee e posizioni sia l’indispensabile motore di una società libera e di una democrazia in salute. L’invenzione dei nuovi despoti che mette insieme un po’ di tutto non è degna di un giornalista come Wolf, però il segnalare anche in democrazie consolidate  leadership molto affermative con tratti non di rado rozzi (talvolta deplorevolmente rozzi) non è privo di una qualche verità. Però scambiare la febbre per il male è un gravissimo errore. I fenomeni a cui assistiamo sono figli dei laburisti thatcheriani, dei liberisti marxisti, delle grandi coalizioni che durano decenni, dei repubblicani che non si distinguono dai democratici. Insomma dell’idea che la politica fosse finita e che al mondo bastasse una buona amministrazione tecnica.

Wolf chiudendo il suo articolo si appella a quella forza della “speranza” che fu centrale nel messaggio di Abramo Lincoln. L’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti è stata certamente una grande tappa per il progresso di tutta l’umanità. Il raggiungimento di questa tappa però non è stato determinato da poteri neutri o da contropoteri della stampa, bensì da una guerra civile durata quattro anni con più o meno un milione di morti.

 

 

 

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