Politica

La morte dell'ex presidente

Quello che non vi dicono di Napolitano

Tutta la verità su Re Giorgio e quello stato-sistema che ha resistito divorando se stesso

napolitano quirinale © Leonid Andronov tramite Canva.com

Il Secolo breve si specchia nei suoi centenari e la memoria immemore li celebra. Può stupire l’edizione straordinaria per il 98enne Giorgio Napolitano che in modo quasi incredibile, quasi irreale, lascia questa valle di lacrime? Narrato come un santo più che un padre della patria, anche da questo papa diversamente cristiano che nel suo Pantheon religioso tiene Guevara, Mao, Greta e Luca Casarini.

Di Napolitano, non potendo dire altro, si dice: è stato uomo delle istituzioni e si dice il vero, la sua stagione grigia, lunghissima, secolare, si esalta nell’ultimo tratto presidenziale che è tutto al servizio non del Paese, non del popolo ma dei partiti che l’hanno espresso, di quel coacervo di poteri, costituiti, sommersi, burocratici, sottaciuti che oggi va di moda chiamare deep state. Re Giorgio, come lo definì il New York Times. Celebrato proprio perché una volta al Colle inasprì l’uso spregiudicato dei relativi poteri: migliorista, capo della destra comunista, un dialogante ma alle sue condizioni, ma pur sempre comunista, cosa di cui si ricorderà quando deve dirigere, amministrare e quando occorre, e spesso gli occorre, sabotare il potere. Un comunista di ferro nel pugno di velluto democristiano, uno degli ultimi esponenti della Prima repubblica che fu l’unica che abbiamo avuto: la successiva fu un golpe giudiziario, agevolato dall’avidità dei partiti che partorivano i Napolitano, dalla caduta del Muro, dalla fine del comunismo storico (ma non della capacità di rigenerarsi dalle sue ceneri maligne), destinata a degenerare nella colonizzazione del potere sovranazionale di Bruxelles. Quella di oggi, che si vorrebbe Terza, è un suk levantino.

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Dalla Terza Internazionale all’Eurocrazia, dall’appoggio dell’invasione sovietica d’Ungheria all’invasione bruxellese: eccolo qui il nostro padre della patria, il nostro santo presidente. Uno che passa la vita in fama di mite, di conciliante, ma di quei concilianti di ferro che la spuntano a qualsiasi prezzo; Montanelli, che non gli ha mai dedicato particolari attenzioni, che all’interno del Politburo comunista lo cita sempre e soltanto per scrupoli didascalici, lo paragonò a una vecchia morbida tomaia. Ma era di quelli, come il papa di Nino Manfredi, che si fingono fragili e dimessi finché non vengono nominati, nella certezza che dureranno poco, e appena eletti cambiano musica e instaurano un regime spaventoso.

Anche il nostro Napolitano ebbe il suo regime e lo torse a piacimento suo e del sistema di potere che lo aveva impancato per scongiurare l’alternativa del giovane d’Alema. Sostenne il golpe europeo che scavallò Berlusconi, impose, per conto della UE, il tenocrate Monti le cui devastazioni non abbiamo più finito di scontare, consacrò la servitudine italiana a quel comitato di affari della finanza e delle grandi banche che è l’Unione. Uomo delle istituzioni? Sì, nel senso pragmatico di un comunista finanziario, accolto anche dall’America dove era andato, Moro prigioniero delle BR, a garantire leale collaborazione in senso atlantista.

Uno che, diciamolo pure, ha aperto la strada al successore che si è mosso perfettamente nel solco tracciato e ha spinto ancora di più nel senso di un presidenzialismo di fatto, tanto più ipocrita perché nell’ossequio formale alla Costituzione. Ecco un altra formula che si usa per presidenti di questo tipo: uomo della Costituzione, scrupoloso garante della Costituzione: garante nel senso che la garantiva per il sistema, la torceva ad uso e consumo del blocco di potere costituito. Napolitano al posto di Mattarella avrebbe fatto la stessa identica cosa in termini di ortodossia irragionevole, antiscientifica e magari anticostituzionale, quanto a vaccini che poco curano e molto ammalano, a profilassi sciagurata, a regime concentrazionario, ad ossessione climatica che rende niente e brucia trilioni sull’altare dei grandi affari e dei colossali sprechi. Sempre Indro diceva, con un calembour dei suoi, che nella storia patria non esisteva presidente che non avesse fatto rimpiangere il precedente; qui sbagliava, le facce cambiano, gli stili cambiano ma la figura in sé resta immutabile: un uomo espresso dai partiti, di sinistra, che si intesta il ruolo di guardiano della Costituzione ma eccelle ed eccede nella capacità manovriera e maneggiona e lo fa in quel modo farisaico, a cavallo tra durezza comunista e durezza democristiana.

Diciamolo una buona volta: oggi le facce delle istituzioni sono per lo più impresentabili, raffazzonate quando non ceffi, avventurieri, grillini, gente che nella massima trasparenza, almeno quella, oscilla a pendolo da destra a sinistra, “basta che ci sia posto”, la politica come gioco influencer senza più scrupoli, senza remore, gli ingaggi per notori farabutti strappati chi alla bisca e chi al bordello; ma anche la Prima repubblica dei Napolitano non era granché con le sue stragi, le sue bombe, il suo terrorismo lasciato serpeggiare a prato basso per vent’anni, le sue P2, i suoi Segreti più marciti che deviati. La differenza l’ha fatta la totale e irreversibile sudditanza a un sovrapotere destinato a svuotare qualsivoglia prerogativa e senso di responsabilità nazionale, il “ci deve pensare l’Europa” che ci pensa alla maniera dei migranti.

Napolitano è stato un apparatchik promosso in quanto tale al vertice di uno stato-sistema che ha resistito divorando se stesso, consapevole che a quel punto, senza più una moneta, un esercito, una autonomia decisionale residua, non poteva fare altro che gestire le rendite di posizione politiche e spolpare l’osso della spesa pubblica, come sempre nella totale assenza di riguardi per la componente produttiva media e piccola, per chi intraprende, esporta, fa ricerca e bene o male tiene a galla lo scombinato paese. Poi possono agiografarli come gli pare, del resto è l’informazione di sistema che celebra il sistema, ma i Napolitano, come i Mattarella, come gli Scalfaro, come i Ciampi, e su per li rami, non vivono nell’ammirazione delle folle ma in quella dei palchetti reali, alla Scala, a Sanremo o San Pietro o nelle Confindustria dei falsi laureati. Per dire dove ci sia un qualsiasi potere che si rispecchia nel potere, lo ossequia, se ne sente, lui sì, rappresentato e garantito.

Max Del Papa, 23 settembre 2023