Comunque la si pensi sull’ultimo Consiglio Europeo e sulle posizioni che si sono confrontate a Bruxelles nel weekend appena trascorso, è l’ora di rilanciare un modello radicalmente alternativo a questa Ue. Uno schema – volutamente ignorato da troppi – ci sarebbe, e nel settembre prossimo se ne festeggerà il trentaduesimo anniversario. Di che si tratta? Del gigantesco discorso tenuto in Belgio, a Bruges, nel settembre del 1988, da Margaret Thatcher. In quell’intervento, la Thatcher centrò un punto di fondo: per anni, le classi dirigenti europee si sono concentrate troppo sugli aspetti istituzionali dell’Europa, hanno fatto dell’Ue un fine in sé, anziché considerarla – come avrebbero dovuto – solo un mezzo per realizzare i veri obiettivi: la crescita della libertà, economica e non, dei cittadini dei paesi membri.
Questa confusione tra mezzi e fini ha portato a un disastro culturale e a un fallimento politico. Il disastro culturale è consistito in quello che Hayek avrebbe definito un caso di fatal conceit, di diabolica presunzione costruttivista: la pretesa dirigista di “modellare” la realtà, di imporre soluzioni dall’alto. A ben vedere, siamo dinanzi all’ultima utopia del Novecento (e, di tutta evidenza, non è un complimento), a un affastellarsi di caos, di scarsa libertà, di documenti in cui la lingua di legno prevale su tutto, di una costruzione concepita per tenersi alla larga sia dal controllo democratico e dall’accountability nei confronti dei contribuenti, sia dai principi di libertà economica pur così spesso – e ipocritamente – evocati. Una pericolosa costruzione in laboratorio: con l’elemento collettivo sempre prevalente su quello individuale, e con il mito della coesione sociale sempre prevalente sul valore della libertà. E con un caotico e incessante mutare di ogni regola, gerarchia delle fonti, procedura, e perfino confine geografico! Ha pienamente ragione, da questo punto di vista, chi evoca una contraddizione. Oggi molti criticano l’Ue con argomenti statalisti: ma non dovrebbero averne motivo, dal loro punto di vista, visto che quella di Bruxelles è una costruzione statalista, un luogo di keynesismo deteriore.
Il fallimento politico è stato quello di aver dimenticato la parte migliore (forse l’unica) del progetto europeo: la libertà economica, la costruzione di un grande mercato. A ben vedere, sta ancora qui la parte “salvabile” del progetto. Se ci fosse un filo di lucidità, l’Ue dovrebbe mettersi in corsa con decisione, abbandonare la follia del ministro delle finanze unico, ogni pretesa di omogeneizzazione fiscale, ogni idea di centralizzazione a Bruxelles delle spese e delle decisioni economiche, e scegliere invece la via di una virtuosa competizione tra stati e territori. Il vecchio mondo non c’è più. C’è un’immensa arena economica e commerciale in cui si lotta per cogliere opportunità, per far machiavellianamente tesoro dell’ “occasione”, e soprattutto per fare del proprio territorio un “aeroporto” accogliente per capitali, investimenti, denaro.
L’Ue diventi solo una piattaforma di servizi. Offra a chi li vuole programmi e progetti, consentendo a ciascun paese di scegliere la formula e il grado di coinvolgimento più adatti per sé. Rinunci alle pretese di integrazione politica. Grideranno gli eurolirici: “Ma questo è un progetto di Europa à la carte”.
Non c’è dubbio: e al ristorante, infatti, è sempre meglio poter scegliere liberamente tra diverse portate, anziché farsi imporre il menu fisso. Per di più da un cuoco tedesco.
Daniele Capezzone, 20 luglio 2020