Sosteneva Montanelli: “Ogni presidente della Repubblica ha fatto rimpiangere il suo predecessore”. La caustica battuta è velenosa ma non vera fino in fondo. Ad esempio: è indubbio che il successore di Scalfaro – Ciampi – abbia avuto il gioco facile: era impossibile far rimpiangere il predecessore. Prendiamo, però, per buono l’aforisma di Montanelli. Ciò che ne consegue è che – messo tra parentesi Enrico De Nicola che fu capo provvisorio dello stato – il miglior presidente della repubblica fu Einaudi. Non c’è dubbio, del resto, che il tempo costitutivo della repubblica, quando al Quirinale c’era Einaudi e al governo De Gasperi, sia stato il migliore. Dopo la stagione centrista e il progressivo scivolamento verso il centrosinistra si è smarrita l’arte di governo – come è stata chiamata da uno storico – e si è inaugurato un lungo periodo di decadenza in cui la nave italiana ha goduto di una navigazione protetta dalla “guerra fredda” e dalla stessa condizione di paese a sovranità limitata. Di tale verità storica esiste anche una controprova: la democrazia italiana mostra tutti i suoi limiti, fino al punto di sfociare in situazioni autoritarie, proprio quando esce dall’area dell’ombrello della sovranità limitata.
Il lavoro svolto da Einaudi al Quirinale – oltre ad essere il garante della politica economica e monetaria dopo essere stato governatore della Banca d’Italia – lo si potrebbe definire “costituzionalismo in atto”. Fin dal suo discorso di insediamento, che durò diciannove asciutti minuti, mise in luce che la Costituzione “afferma due principi solenni: conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia di libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza”. Si tratta, come ognun vede, di parole sante, soprattutto oggi che lo stato è di fatto onnipotente e ha la pretesa, con arruffate decisioni, di esserlo anche di diritto.
A questa linea costituzionale – di una costituzione culturale prim’ancora che legale – Einaudi ispirò il suo lavoro presidenziale inviando messaggi, note e lettere ai singoli ministri, non per ingerire nel loro operato ma affinché i ministri non ingerissero nella vita civile della nazione, delle imprese, dei singoli. È noto che Einaudi riprese il suo lavoro quirinalizio in alcuni testi: Lo scrittorio del presidente con le famose “prediche inutili”. Ma cosa c’è per noi oggi – e per il prossimo inquilino del Quirinale – di più utile e perfino necessario? In questi due anni e passa vissuti pericolosamente ci si è discostati dalla Costituzione spesso e volentieri e lo si è fatto in nome della sicurezza. Ma proprio la Costituzione esprime già il massimo di sicurezza possibile raggiungibile da un governo che sia serio. Sicurezza significa essere garantiti rispetto alla violenza e non certo avere la garanzia della non-malattia, che è cosa che non assicura nemmeno Dio.
Il senso della misura, che era proprio di Einaudi, e che dovrebbe essere di ogni buon politico, è ciò che bisognerebbe recuperare come il bene più prezioso per tradurre in atto quella cultura costituzionale che l’anti-retorico Einaudi, a partire dall’articolo 81 della Carta che corresse di suo pugno per far corrispondere ad ogni spesa una copertura finanziaria, ebbe come stella polare e coltivò come stile personale. Dunque, per dare un senso reale al giudizio di Montanelli sui presidenti, non resta che ritornare alla serietà di Luigi Einaudi.
Giancristiano Desiderio, 27 gennaio 2022