Dopo la “mossa del cavallo” con cui Matteo Renzi propiziò l’inciucio giallorosso, tocca all’altro Matteo (Salvini) lanciare la sua strategia. E stavolta l’obiettivo è ancora più ambizioso: il Quirinale.
In effetti, s’è detto spesso che una delle conseguenze indesiderate della rottura con il Conte 1, che spianò la strada dal pastrocchio Pd-M5s, sarebbe stata quella di regalare per l’ennesima volta lo scranno più alto della Repubblica alla sinistra. Un esito quanto mai pernicioso per i sovranisti: da Oscar Luigi Scalfaro a Carlo Azeglio Ciampi, da Giorgio Napolitano allo stesso Sergio Mattarella, abbiamo visto quanto fosse importante piazzare una casella al Colle. Alla crisi della politica e dei partiti e al conseguente vuoto di potere, hanno sovente supplito i capi dello Stato, con un’interpretazione sempre più estensiva delle prerogative conferite loro dalla Costituzione.
Ieri, Salvini ha affidato a un’intervista a Repubblica la sua proposta choc: scegliere il prossimo presidente con i voti di tutti (si presume, Italia viva inclusa) tranne che del Pd. Messa così, è un’idea geniale: il leader leghista sa che, al netto di sempre possibili incidenti in Aula (come quello sfiorato qualche giorno fa al Senato: per questo Giuseppe Conte vorrebbe mettere in stand by il Parlamento), difficilmente il governo cadrà prima del semestre bianco (luglio 2021). Ma a quel punto, i giochi per l’elezione del capo dello Stato saranno fatti. Così, Salvini entra a gamba tesa e prova a scompaginare lo sfilacciato fronte giallorosso, corteggiando il Movimento 5 stelle, o almeno quella frangia mai soddisfatta dell’accordo a perdere con i dem e, ora, rianimata dalla ricomparsa di Alessandro Di Battista.
In realtà, la reazione pentastellata per adesso è piuttosto fredda. Vito Crimi, riferisce sempre Repubblica, ha respinto al mittente la proposta di Salvini e, a quanto pare, vertici e base del Movimento non sarebbero disponibili allo scacco matto al Pd. La strada verso il Colle, comunque, è lunga e tutta in salita.
Intanto, i grillini hanno approfittato dell’intervista del loro ex alleato per ostentare indignazione per le manovre dem in vista del 2022. Ma c’è da giurare che la sparata del capo del Carroccio non esaurirà qui il suo potenziale deflagrante. Che in tanti, nel Movimento, non abbiano digerito la svolta di Beppe Grillo, non è affatto un mistero. Ed è arcinoto che tra essi ci sia lo stesso Di Maio, ai ferri corti anche con Conte: l’ex capo politico è ovviamente restio a far saltare il banco, perché sa che finirebbe all’angolo. Se però fosse in grado di guidare una fronda numericamente consistente, ottenendo peraltro il risultato di non far apparire Di Battista come l’unico custode della “verginità” del M5s, è difficile pensare che si morderebbe ancora la lingua. Sarebbe l’occasione per fare le scarpe al comico cofondatore, una personalità ingombrante nel partito, oltre che di segnare finalmente un perimetro di autonomia dalla famiglia Casaleggio.
Certo, ci sarebbe il non trascurabile problema di individuare una personalità in grado di mettere d’accordo una coalizione eterogenea, che va da Silvio Berlusconi, a Giorgia Meloni, a Renzi, ai pentasellati. E poi è chiaro che il Pd non se ne starà a guardare.