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Quota 100 e reddito cittadinanza, ingiustizie e bufale della politica

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Ho ricevuto sul mio sito la seguente lettera, che meglio di tante chiacchiere racconta la manovra del governo gialloverde: «Ho 57 anni e 40 anni di contributi; seguendo le varie ipotesi di riforme pensionistiche, chi ha lavorato meno di me va in pensione prima: in quanto chi ha 62 anni di età e 38 di contributi può uscire dal lavoro. Ma io come tanti altri che abbiamo già 40 o 41 anni di contributi dobbiamo aspettare i 62 o più anni? Avrei 45 anni di contributi (al compimento dei 62 anni, ndr), mi piacerebbe avere delle risposte sull’argomento».

La risposta è che questo signore che ha iniziato a lavorare giovanissimo è fuori dalla lotteria. Chi invece (e si tratta circa della metà dei beneficiati di quota 100) ha vinto un concorso pubblico ed ha iniziato a lavorare a 24 anni e oggi ne ha 62 potrà andare in pensione anticipata rispetto ai sottoposti alla Fornero che dovranno aspettare i 67 anni.

Quindi ci troviamo tre insiemi di pensionandi: quotisti, forneriani, precoci. Le riforme delle pensioni d’altronde sono una roulette, i politici presumono di sapere cosa vogliono all’inizio, ma alla fine i casi sono talmente variabili che succede un casino. I tecnici e i rigoristi (alla Boeri, per intendersi) hanno la ricetta semplice di non farci andare in pensione o farci andare il più tardi possibile per mantenere in ordine un bilancio che è fallito da tempo per le folli promesse già mantenute.

Non sappiamo che lavoro faccia il nostro lettore. Ma è chiaro che quota 100 nel suo caso appaia incongrua. Senza entrare neanche nel merito del lavoro svolto.

Il governo con quota 100, che poi bisognerebbe chiamare «quota almeno 100», poiché a 63 anni devi avere sempre 38 anni di contributi per andare in quiescenza, aiuterà 400mila lavoratori che avranno diritto alla pensione: gran parte sono dipendenti pubblici. Ancora non è chiaro se nei 38 anni di contributi si possano calcolare anche i contributi figurativi, ad esempio quelli corrisposti nei periodi di cassa integrazione. Era una proposta, per rendere la quota meno cara, di Alberto Brambilla. Se così fosse, i lavoratori del privato potrebbero saltare l’asticella con maggiore difficoltà rispetto ai pubblici, garantiti dal posto fisso.

Insomma, la riforma delle pensioni, non solo questa per carità, è lo specchio di una società fatta di bande. In cui si cerca di venire incontro a seconda dell’orientamento politico. L’unica banda, enorme, che è fuori gioco è quella di chi ha un lavoro a singhiozzo, o il lavoro proprio non ce l’ha. Ecco perché il governo gialloverde si è inventato altre due mosse. Per cercare di non restare scoperto elettoralmente.

1. La prima è quella di dire che i 400mila che andranno in pensione, saranno sostituiti da 400mila giovani che troveranno lavoro. Una previsione che non ha fondamento scientifico e si basa su una semplificazione che può fare solo chi non ha mai lavorato in un’impresa. Questo ragionamento di «uno sostituisce uno» vale solo per i politici. Solo in politica e nelle sue vicinanze se si manda in pensione forzatamente qualcuno si libera un posto. Il lavoro nelle imprese private non si crea così. Soprattutto in un momento come questo di rivoluzione tecnologica, i lavori non si generano per sostituzione nella medesima azienda, ma per creazione grazie alla nascita di nuove imprese. Non è un caso se nel mondo i Paesi che hanno maggiore tasso di occupazione giovanile, sono anche quelli dove l’occupazione è più alta tra gli anziani. Esattamente il contrario di quanto ci stanno raccontando.

2. La seconda operazione di politica economica messa in campo per tenere insieme senza lavoro e occupati a cui si riconosce «in deroga» la pensione è che non ci sarà più nessun italiano in «povertà». Grazie al reddito di cittadinanza infatti un giovane, che non può andare ovviamente in pensione e che non trova il lavoro, avrà 780 euro e la promessa che prima o poi sarà occupato. Purtroppo le cose non sono così semplici. E questa macchina infernale si regge su una montagna di debiti che abbiamo fatto e che continueremo a fare.

La tecnica con cui si costruisce il quadro non è infine irrilevante. In un sistema pensionistico in cui la pensione è banalmente la restituzione rivalutata di ciò che si è accantonato, si potrebbe pensare anche a quota 90 o 80: ognuno si porta a casa ciò che ha versato. Quota 100 costa 7/8 miliardi per il solo primo anno, proprio perché ciò non è vero.

Non vorremmo apparirvi pessimisti, ma il futuro del sistema pensionistico è già scritto. Pensione di cittadinanza, più o meno per tutti, indipendentemente dai contributi versati. Il sistema non regge e le promesse fatte nel tempo sono diventate diritti acquisiti che nessun politico smonterà mai. Se avessimo lucida certezza dell’ineluttabilità di questo processo, dovremmo scappare a gambe levate dal posto fisso.

Ops: i politici per tempo si sono accorti di questa faticosa scorciatoia, e chi non ha arte né parte è sottoposto alla botta del 29% di tassa «contributo previdenziale». Un’imposta per garantirci la pensione, a cui molti autonomi farebbero volentieri a meno.

Nicola Porro, Il Giornale 13 ottobre 2018

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