A meno di una settimana dai referendum sulla giustizia, un settore della cosa pubblica da sempre ostile a qualunque tentativo di riforma, si segnala l’esilarante presa di posizione di Enrico Letta in versione cerchiobottista: “Il Pd non è una caserma e men che meno su questi temi. C’è la libertà dei singoli, essa rimane a maggior ragione per una materia come questa, così complessa, rispetto a quesiti molto diversi tra di loro”. “Tuttavia, – ha poi sottolineato il segretario del Pd – questi referendum aprirebbero più problemi di quanti ne risolverebbero”.
Ancora più netta la posizione di Giuseppe Conte, leader del partito più forcaiolo della storia patria: “I quesiti sono frammenti normativi che intervengono quasi come una vendetta della politica nei confronti della magistratura”. La magistratura – ha proseguito il presidente del Movimento 5 Stelle – ha delle colpe, tra cui la deriva correntizia. Di qui ad assumere, da parte della politica, un atteggiamento punitivo, ne corre. Ecco perché noi siamo assolutamente contrari al referendum continueremo a lavorare per progetti di riforma organici e sistematici”.
Ergo, in merito forse al più significativo dei referendum, quello che tende ad imporre una rigida separazione tra funzione giudicante e funzione requirente, secondo Letta ciò provocherebbe ulteriori problemi, mentre per Conte questa elementare regola di civiltà giuridica sarebbe addirittura punitiva nei confronti dell’ordine giudiziario.
Eppure colpisce che questa difesa d’ufficio dei magistrati provenga da un avvocato, la cui categoria ha sempre combattuto per una riforma del giudizio penale in cui venisse affermata una volta per tutte la terzietà del giudice. Terzietà che con la disfunzionale commistione tra togati che svolgono mansioni tra loro incompatibili, i quali spesso lavorano a stretto contatto di gomito, rappresenta in molti casi una pura utopia. A tale proposito risultano piuttosto illuminanti le parole di Antonio Giangrande, avvocato di Avetrana che ha pubblicato un libro su uno dei casi più controversi della nostra giustizia spettacolo: il processo per l’uccisione della povera Sarah Scazzi. Scrive infatti Giangrande: “Come è possibile che a presiedere la Corte di Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio, nonché collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l’accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?”
Un dubbio più che legittimo che l’attuale normativa non sembra assolutamente in grado di tacitare, dal momento che attualmente, il passaggio tra i due ruoli è limitato a un massimo di quattro volte con alcune regole, tra cui l’impossibilità di svolgere entrambe le funzioni all’interno dello stesso distretto giudiziario. Tuttavia, se la riforma presentata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia dovesse venire approvata, il numero di passaggi possibili scenderebbe a uno.
Se poi a tutto questo ci aggiungiamo la deriva correntizia sottolineata dallo stesso Conte, la quale con il meccanismo della valutazione quadriennale dei magistrati, che uno dei referendum vorrebbe estendere anche agli avvocati e ai professori universitari di materie giuridiche – i quali attualmente svolgono solo un ruolo consultivo nel consiglio disciplinare – l’obbligo di raccogliere almeno 25 firme di magistrati per candidarsi al Consiglio superiore della magistratura – obbligo che i promotori del referendum intenderebbero abolire -, dal punto di vista di un garantista si ha l’impressione di doversi confrontare con una casta quasi intoccabile.
D’altro canto, occorre ricordare, per decenni soprattutto dal versante politico e culturale della sinistra nella terminologia comune non si è mai fatta molta distinzione tra giudici e pubblici ministeri. Ricordo che durante il periodo oscuro di Mani pulite, in cui un avviso di garanzia equivaleva ad una condanna passata in giudicato, i membri della Procura di Milano venivano spesso e volentieri definiti giudici. Una confusione che ancora oggi ogni tanto si ripresenta nelle sue sinistre sembianze e che tende a rafforzare l’idea che nei fatti non siamo ancora usciti dal modello inquisitorio del processo penale, in cui la figura del giudice e del magistrato inquirente risultano ancora troppo sfumate nell’immaginario collettivo.
Ovviamente nell’acqua stagnante di una giustizia che continua a partorire mostri – pensiamo, ad esempio, ai cinque gradi di giudizio, con addirittura due assoluzioni, che hanno portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi per il delitto di Garlasco – i cinque referendum rappresenterebbero solo un piccolo ma significativo passo nella direzione del tanto decantato “giusto processo”. Per questo motivo è importante che il 12 giugno, andando a votare, venga sconfitta la cultura della forca, del sospetto e del giudizio sommario che sembra avere ancora molto seguito in questo disgraziato Paese.
Claudio Romiti, 6 giugno 2022