di Carlo Lottieri
Di fronte a quell’autentico scempio del diritto che è il ricatto del lasciapassare verde di Stato (“green pass”) è necessario reagire. E per questo motivo è quanto mai positivo che, in varie parti d’Italia e nei più diversi settori della società, si siano avviate iniziative per aiutare i nostri concittadini a ragionare, spiegando quanto sia illiberale la strada dell’obbligo vaccinale: una sorta di Tso, trattamento sanitario obbligatorio, riservato a ogni cittadino.
La mobilitazione anti-green pass
Nonostante tutto e contro un governo che unisce la destra, il centro e la sinistra, nelle ultime settimane abbiamo visto una parte significativa della società mobilitarsi. Sono persone che sono state volgarmente offese (etichettate come “no vax” da un’informazione quasi del tutto omologata e filo-governativa) e che in tanti casi hanno pure accettato di pagare un qualche prezzo personale per questa loro fedeltà a principi e diritti che non possono essere accantonati. Entro tale quadro si capisce che un gruppo di personalità di spicco impegnate in tale testimonianza abbia deciso di avviare un’iniziativa referendaria volta ad abrogare le norme che permettono al ceto politico di disporre del nostro corpo: senza alcuna giustificazione di tipo sanitario, dato che la probabilità statistica che un non vaccinato possa arrecare danno a un vaccinato è molto inferiore di quella che riguarda molteplici realtà e comportamenti che mai considereremmo da proibire e cancellare (dalla guida di una vettura alle aggressioni da parte di cani).
Perché dire no al referendum
Nonostante ciò, è legittimo ritenere che la strada del referendum non sia la più opportuna. Innanzi tutto, non è ammissibile che un voto – fosse anche popolare (tramite un istituto di democrazia diretta) – possa confermare un abuso tanto grave. Come hanno sempre insegnato i liberali classici del XIX secolo, ci sono questioni che non possono essere messe ai voti. Qualcuno può giudicare ammissibile che ci si rechi alle urne per decidere sul ripristino della schiavitù, sullo sterminio di un’etnia o sulla messa fuori legge di una prospettiva ideologica o di una comunità religiosa? Assolutamente no. Vi sono principi che nessuna volontà umana e nessun referendum può sovvertire, e tra di essi figurano la piena disponibilità del proprio corpo e la libertà di cura. È importante avere presente che, da sempre, la democrazia è un’arma a doppio taglio: può essere utilizzata per predisporre limiti al potere, ma in varie circostanze essa è stata pure impiegata per offrire una potente legittimazione ai governanti e di conseguenza per allargare il dominio dei pochi sui tanti. Come ogni riflessione sul totalitarismo ha evidenziato, soltanto nell’epoca della democrazia è stato possibile l’emergere di un potere così tentacolare, pervasivo, capace di entrare nella mente e nel cuore degli uomini.
Per giunta, il contesto entro cui ci troviamo vede una solida alleanza tra ceto politico, alta burocrazia di Stato, big business e media. L’emergenza sanitaria è cinicamente sfruttata da questo intreccio di poteri e interessi che sta riformulando il welfare State in termini nuovi e ancor più oppressivi.
Battaglia di resistenza contro il green pass
Ha senso pensare di avviare una contesa referendaria entro questo quadro? Assolutamente no. Quanti vogliono difendere qualche spazio di autonomia, libertà individuale e auto-organizzazione sociale devono sapere che la loro è e sarà una battaglia di resistenza. Come Giorgio Agamben ha invitato a fare, oggi si tratta di costruire una polis parallela (una comunità che di persone che si aiutino ad attraversare questo periodo buio e questa fase opprimente) e al tempo stesso è importante, però, tenere vivo il dibattito nella società estesa: richiamando l’attenzione su dibattiti scientifici assai aperti, certo, ma ancor più sulle implicazioni morali, giuridiche e sociali di questa barbarie istituzionalizzata.
In tale quadro degradato (sul piano politico, istituzionale, economico, mediatico e culturale), un referendum avrebbe quasi certamente tratti plebiscitari simili a quelli di tante consultazioni popolari tra età napoleonica e metà Ottocento: un semplice strumento del potere per chiudere la bocca a ogni obiezione e opposizione. In quelle circostanze il voto era soltanto un rito dall’esito scontato, anche perché i brogli erano la regola: come quando nel 1866 la cessione del Veneto dalla Francia al Regno d’Italia fu ratificata da un plebiscito il cui esito oppose 641.758 “sì” e 69 “no”. È difficile pensare che oggi la situazione sarebbe del tutto diversa.
Referendum impresa rovinosa
Da tempo sono uno strenuo difensore degli strumenti di democrazia diretta e nel mio volume sulla Svizzera (Un’idea elvetica di libertà) ho cercato di evidenziare come la peculiarità di quel modello poggi anche sul costante coinvolgimento dei semplici cittadini nell’elaborazione e nell’abrogazione delle norme. Al tempo stesso, il ricorso al voto popolare in Svizzera ha luogo entro un quadro di poteri quanto mai localizzati: così che ogni cittadino – entro cantoni spesso di minuscole dimensioni – ha effettivamente una propria capacità d’incidere e di pesare. Pure da noi bisognerebbe provare a seguire questa strada, immaginando una rinascita della società civile che passi da un nuovo protagonismo delle diverse realtà locali.
Senza questa rinascita dei territori e delle comunità, in Italia ogni ricorso a forme di democrazia diretta rischia di offrire soltanto ulteriori opportunità agli uomini di potere e agli interessi che si sono coalizzati attorno a loro. Forse è bene fermarsi un attimo, riflettere attentamente e confrontarsi con serenità, allora, prima di lanciarsi in un’impresa che rischia di risultare generosa e rovinosa al tempo stesso.
Carlo Lottieri, presidente di “Nuova Costituente”, 20 settembre 2021