Regeni, la verità che i suoi sostenitori non dicono

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Un gruppo numeroso di cittadini e di universitari triestini e friulani s’è fatto promotore di una petizione volta a mantenere sul Palazzo della Giunta Regionale lo striscione per Giulio Regeni. «Da più di tre anni, vi si legge, migliaia e migliaia di persone insieme a enti locali, università, scuole e associazioni chiedono la verità |…| Sembra impossibile che proprio nella città di Trieste, dove Giulio ha studiato, si tolga lo striscione che incita a trovare la verità sulle responsabilità per la sua sparizione, la tortura e l’uccisione».

Del caso del ricercatore scomparso al Cairo e assassinato da agenti di polizia o da squadroni della morte, al loro servizio disposti a fare il ‘lavoro sporco’, si è parlato molto nel 2016. Ma nessun giornalista era stato più chiaro di Carlo Panella che su Huffingtonpost – Le cattive maestre di Regeni del 17 febbraio 2016 – aveva scritto: «Cosa si penserebbe di due professori che avessero assegnato a uno specializzando una ricerca sull’opposizione al regime di Pinochet, o di Videla nel periodo della loro massima ferocia repressiva? La risposta è scontata: che esponevano il loro sottoposto (perché c’è una gerarchia tra professore e specializzando) a pericoli gravissimi e non giustificabili sotto nessun profilo. Bene, il regime di al Sisi è dieci volte più autoritario e pericoloso di quelli di Pinochet e Videla, anche perché combatte concretissimi e attivissimi jihadisti islamici. Ma Maha Abdelrahman dell’Universitá di Cambridge e Rabab El Mahdi dell’American University del Cairo, non si sono fatte scrupoli a spingere Giulio Regeni ad esporsi frequentando riunioni sindacali in cui si progettavano scioperi illegali e lo hanno incitato a prendere contatti con esponenti dell’opposizione. L’hanno usato cinicamente e irresponsabilmente per potere poi pubblicare, apponendo i loro nomi accanto al suo, i loro bei pamphlet accademici di denuncia tanto tanto politically correct e tanto utili per le loro carriere accademiche». (Un articolo analogo aveva pubblicato sull’Occidentale del 12 aprile 2016, Daniela Coli, Ma l’Italia si mobilita per Regeni o contro Al Sisi?).

Delle colpe di chi ha messo in pericolo la vita di Regeni si continua a tacere mentre rabbia e risentimento sono rivolte al Rais, che si è comportato con un potenziale eversore venuto da fuori come continua a comportarsi con quelli di casa. Ci si chiede: ma cosa vogliono gli studenti di Trieste (e quei professori che li sostengono?) Che al Sisi ammetta dinanzi alla comunità delle nazioni che il massacro di Regeni si deve, direttamente o indirettamente, a lui? Deve cospargersi il capo di cenere e chiedere perdono al mondo intero per il carattere poliziesco e illiberale del suo regime? E se non lo fa, l’Italia deve ritirare l’ambasciatore e rompere i rapporti col Cairo incurante, per ragioni di principio, della perdita di affari per milioni di euro?

A tutti ( a destra come a sinistra) stringe il cuore, pensando alla sorte toccata a Giulio Regeni e si vorrebbe fare qualcosa per la sua memoria e (soprattutto) per evitare il ripetersi di casi del genere ma c’è da scandalizzarsi se molti, non vedendo vie d’uscita, ritengono che lo striscione vada rimosso una buona volta anche perché di altre vittime da ricordare, a Trieste, ce ne sarebbero tante (a cominciare dalle ‘ pulizie etniche’ che per qualche intellettuale militante del luogo non sarebbero state tali, dal momento che coinvolsero anche persone con cognomi slavi— slavi, sì, ma italianizzati da quattro secoli!).

Al di là di ogni considerazione di merito, però, sconcerta la pretesa di imporre a un Consiglio Regionale di centro-destra una battaglia ideale che la maggioranza dei suoi membri non sente. Quello striscione dovrà rimanere sulla facciata della Regione Friuli VG a tempo indeterminato, finché non verrà fatta giustizia? Neppure i dreyfusardi o i compagni di Giacomo Matteotti avrebbero forse chiesto tanto. In realtà, sorge il sospetto di una rivincita morale: in Friuli il centro-destra ha stravinto le elezioni regionali e a quanti non l’hanno votato sembra essere rimasta soltanto la gratificazione di sbattere sulla faccia dei vincitori un simbolo di antifascismo, di antisovranismo, di antinazionalismo, di anticapitalismo (Regeni collaborava al ‘ Manifesto”). Agli uni i voti, agli altri la custodia dei valori ‘ repubblicani’.

Nel ventennio durante le sfilate dei gagliardetti e delle bandiere era imposto ai passanti l’obbligo di togliersi il cappello, anche (e soprattutto) agli scettici e agli indifferenti. Se ci si riflette bene i tempi non sono cambiati, anche se, per fortuna, alla violenza fisica si è sostituita la gogna morale e la delegittimazione di quanti non onorano Che Guevara e i suoi fratelli. A Trieste si vuole imporre il ‘ pensiero fisso di Regeni a tutti indistintamente, anche a quelli che, al di là dell’umana pietas, ritengono la battaglia per «la verità sulle responsabilità per la sua sparizione, la tortura e l’uccisione» inutile o, comunque, non prioritaria. A ragione o a torto. Diventeremo mai liberali?

Dino Cofrancesco, Il Dubbio 27 giugno 2019

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