Doveva essere 4-2. Addirittura, 5-1. E invece è stato un sostanziale pareggio, con la bilancia che, però, pende più per i giallorossi: il centrodestra tiene il Veneto (fortino di Luca Zaia) e la Liguria, prende le Marche (non è un successo da sottovalutare, anche se, nella Regione, storicamente rossa, le cose stanno cambiando già da qualche anno), però manca l’impresa in Toscana e perde nettamente anche in Puglia. Dove Michele Emiliano, fino a poche settimane fa, tremava, tanto da essere indotto a giocarsi il tutto per tutto (e ad attingere, dicono i detrattori, a tutta la sua fittissima rete clientelare). Ed è proprio lo scivolone di Raffaele Fitto a congelare lo status quo, sia per quanto riguarda il governo, sia per quanto riguarda gli equilibri interni alla coalizione.
La maggioranza, infatti, schiva il tracollo. Per carità, Nicola Zingaretti dovrà rabbonire la fronda dei governatori, dallo sceriffo Vincenzo De Luca al capo della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini, già da tempo insofferente nei confronti del Nazareno. I grillini, sul piano elettorale, confermano la clamorosa tendenza al ribasso. E le forze che sostengono l’esecutivo sono accerchiate dai territori: 15 regioni a 5 sono un dato che, chiunque abbia un briciolo di dignità, non potrebbe ignorare. Ma Giuseppe Conte, signore delle paludi, in questo guado transiterà agevolmente: il suo ruolo di cerniera è blindato, il baraccone andrà avanti per tutto il resto della legislatura, a discettare di legge elettorale e riforme costituzionali, indipendentemente dal logorio del tessuto produttivo del Paese.
Sul piano dei rapporti di forza nel centrodestra, poi, il flop pugliese impedisce a Giorgia Meloni di alzare il tiro con Matteo Salvini. Fdi guadagna una regione, la Lega se ne tiene una già più “militarizzata” delle roccaforti comuniste. Ma se la leader romana fosse riuscita a vincere la difficile sfida in Puglia, con il Carroccio battuto in Toscana, avrebbe potuto ridimensionare il protagonismo di Salvini. Resterà tutto com’era: un Nord solidamente leghista (e non credete alla leggenda di Zaia che insidia il Capitano), un Centro con un cordone meloniano, dalle Marche all’Abruzzo, un Sud ancora controllato dalle personalità che hanno gravitato negli ambienti di Forza Italia. Proporzioni invariate ai fini dei tavoli nazionali.
Qualcosa poteva essere fatto meglio? Forse. Nelle due regioni dove la scalata era più ardua, in realtà, bisognava anche fare i conti con le strutture di potere consolidate dalla sinistra: nel caso della Toscana, parliamo di una rete tentacolare vecchia di mezzo secolo. Il dato più amaro, a essere sinceri, è quello che viene fuori dal referendum. Se è vero che il sì l’ha spuntata soprattutto grazie agli elettori di centrodestra, significa che probabilmente i leader della coalizione, temendo che una campagna per il no sarebbe stata un autogol, hanno comunque servito un assist agli avversari.
La riforma costituzionale apre, infatti, un acquitrino politico nel quale gli anfibi giallorossi sguazzeranno. Giocarsi il tutto per tutto poteva essere peggio? L’elettorato avrebbe disobbedito alle indicazioni dei partiti, come in effetti ha fatto quello di sinistra, tra il quale ha prevalso il no, contrariamente alla posizione del Pd? Può darsi. Fatto sta che il pareggio, per la destra, somiglia a una sconfitta. Che complica enormemente la prossima, delicatissima partita: quella per il Quirinale.
Alessandro Rico, 21 settembre 2020