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Renato Zero torna col suo miglior “Autoritratto”

È uscito il nuovo album del re dei sorcini che non finisce mai di stupire: 13 tracce e un nuovo tour da marzo 2024

© RTsubin tramite Canva.com

La calligrafia è purissima, è stato di parola. Non è dato sapere se questo “Autoritratto” fosse programmato o sia uscito per caso, figlio di momenti tenuti in dispensa o di un progetto più meditato, e non è importante scoprirlo: qui, Renato Zero propone 13 tracce solenni, che negli anni arrembanti, fra un Baratto e un Triangolo, avrebbero sciolto legioni di cuori, trasformandosi in classici istantanei. Sono canzoni epiche, più a fuoco che in passato, lui, Renato, ha trovato due nuovi autori, Lorenzo Vizzini, già di felice scrittura sul precedente Zero70, e l’insospettato Alterisio Paoletti, un nome che par de plume, ma è un maestro e direttore come serve a Zero per arricchire un canzoniere che non finisce mai. Poi una Mariella Nava nella sua disinvoltura migliore (Zero a Zero, Così Tenace), anche un Maurizio Fabrizio d’antan (Fortunato) ed altro ancora. Ed è tutto da sentire.

Quando si è giovani si ama di un amore stupido e non si capisce niente: bisogna arrivare a un certo punto di una certa età, impregnata di sconfitte, di rimorsi e di dolore per cogliere o intuire almeno le sfumature di un artista: quante volte abbiamo accusato Renato d’essersi snaturato, d’aver rinnegato gli esordi arrembanti, quell’animale selvaggio da palco capace d’inni sontuosamente feroci. Quante volte hai osservato che tutti quei dischi, quelle canzoni, piovute a grandine sugli anni tuoi erano così ridondanti, ultraprodotte; così fuori tempo. Poi ti ritrovi a 60 anni in un letto di spine e ci arrivi: non fuori tempo ma atemporali, non sfuggite di mano ma volute.

L’artista nella sua coerenza, che propone quello che sente nel segno di un orgoglioso rispetto per la musica: la sua, come la intende, come la incarna. La musica da non pensar leggera, l’umilissima presunzione di chi ha un obiettivo da sviluppare in tutta una vita artistica: perché io non potrei affermare un discorso dalla dignità classica? Questi miei momenti, io te li affido perché restino dei classici. Allora uno capisce che il percorso dal beat a Ennio Morricone, dal Piper a Riccardo Muti, se lo sai tracciare, ha le sue direzioni precise, e non scandalose, tanto più che prima o dopo tutti ci hanno provato, con esiti mediamente meno credibili; uno capisce che la dimensione sinfonica non era un capriccio sventato ma un orizzonte; e rivaluta l’onestà che gli pareva sfumata.

Arriva, uno, anche a farsi un quadro preciso della dimensione musicale. Quando segui un artista per una vita, cresci insieme a lui, cambi con lui e un po’ anche per lui, per suo merito o complicità o colpa. Arriva un “Autoritratto” e c’è Renato che ribalta la prospettiva: da giovane c’era un matto che diceva cose di buon senso, che partiva da se stesso per cantare del mondo, adesso, e da tempo, c’è il folle che parte dal mondo per cantar se stesso: in fondo, non è cambiato niente, al netto del gioco allo specchio – anche questa, dello specchio, un’ammissione mai celata da Ciao, Nì a Zero il Folle.
Finché t’accorgi che a cambiare sei stato forse più tu di lui.

Non c’è tutto questo disperdersi in Autoritratto, non c’è un Rinato Zero. Ci sono 13 pagine squisite, che escono oggi ma potevano uscire 50 anni fa, tranne che oggi probabilmente sono interpretati, incarnati meglio, perché l’esperienza conta, altroché se conta: eppure, ogni tanto, riaffiora quel canto strozzato, che ci pigliava alla gola, ci faceva volare. Via, via, via. Mezzo secolo, cento vite, un attimo. E noi nel mezzo. E lui sempre lì, nell’eterna sfida a se stesso, nell’inevitabile gioco di specchi partito ancora prima dell’esordio su disco, No, mamma! No. Millenovecentosettantatrè, tanta rabbia feconda e tante Fiat 127 dai colori stinti per la strada.

Le composizioni nuove, già proposte nei concerti delle ultime due scorse tournée erano belle, ha fatto bene a recuperarle una per una: si apprezzano ancora meglio nella loro veste da studio, cantate con l’enfasi che richiedono, addobbate nel raso di sonorità ricercatissime ma calibrate: un bel lavoro di cesello, va detto, per tutti i brani, che sono tutti solenni. Solo La Ferita, drammaturgica com’è, esorbita ma resta innodica, pieno di intenzioni. I testi, stimolati da un percepirsi senza più remore, salgono di livello, l’autobiografismo si esalta in figure potenti, intuizioni efficaci e qualche cliché semantico e figura retorica che, contrariamente ad altre occasioni, non stride. Dopo migliaia di versi c’è una linfa come nuova, c’è l’esigenza ancora di spiegarsi e anche questo impressiona.

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No, non lo sapremo se questo album sia un incidente di percorso, ma, nel caso, che bello! Una strenna, tra le sinuosità deliziose, le francesità de l’Avventuriero, sulle orme dell’immenso in miniatura Aznavour, l’orgoglio teatrale otto-novecentesco di Non ti cambierei e L’eco, e suggestioni sparse come richiami nel bosco di un canzoniere: affiorano tutti gli Zeri del mondo, magari un istante, un bagliore ma ci sono, disseminati come indizi da cogliere mentre sbiadiscono. Ma non evapora la convinzione ancora, quel credere nella musica, la propria musica senza riserve – ed è il valore emozionale aggiunto: che io ricordi (e di musica m’abbevero a oceani, l’ho studiata, so cogliere i pregi di una melodia, di una struttura armonica, di una modulazione), ho ritrovato la stessa dedizione solamente in Keith Richards, capace a 80 anni di un lampo ruvido e dolente come Tell Me Straight, dove canta di una vita che si reimpacchetta come il tempo, inenarrabile scorreria che si fa storia, ed è impossibile resistere.

Anche Renato Zero si porta dentro, addosso stagioni invivibili, insospettabili ai più, raccontate le mille volte, ma alla fine quanto pesano solo lui può saperlo. Ogni esperienza lascia crepe, ferite. Anche di gioia, più spesso di strazio. È il materiale, capisci? Essere artista significa il bagaglio che uno trascina, fino a che non scende, come nel Viaggiatore Cerimonioso di Caproni, significa anche essere un ossessivo compulsivo, un autistico rarefatto, ed è una vita insostenibile anche nella bellezza, perché tutta giocata sullo spasimo di darsi, di comunicare alla normalità degli altri ciò che non potranno capire. Intuizioni, fantasie, ossessioni. Manie. Ascoltare i fili d’erba crescere. Capire tutto da un inarcarsi di sopraccigli, e non imparare mai e cascare nella più stronza delle sirene. Ancora e ancora. E allora, non ti resta che rovesciare tutto in quello che sai. Che sei. Infine Fortunato ad essere Renato, ad essere così. Ma è un sollievo anche amaro…

Sono queste le cose che fanno la differenza; che fanno un artista. Le cose che restano nei dischi che non vanno via. Non le filastrocche balneari arrancando dietro a un Fedez o all’ultimo trapper dei miei stivali. Sapete, quelli che fanno i duri con la pistola in una mano e la mazzetta nell’altra, ma se li trovi in ascensore senti subito un odore curioso, perché ti basta guardarli per fargli capire cosa è la vita vera, mala, carogna. Vissuta tua malgrado: allora il controllo del pannolino di spocchia, si squagliano come un impressionismo sotto al temporale. Ma lasciali gòdere, come diceva Beppino, e invece mi sbilancio: “Autoritratto”, in una produzione fluviale, è un capitolo inaspettato che più di altri resterà. È come la consacrazione di un genere inconfondibile, raggiunto tappa dopo tappa.

Pop sinfonico? No, qualcosa di più, romanza popolare, paradigma orchestrale dove il coro lirico travasa nel coro pop. Già ai tempi di Ave Maria c’era questa trasgressione ribaltata, portare a Sanremo una preghiera operistica, e ancor prima, con le Spalle al muro che, altro che datate, lo rilanciavano posticipando la vecchiaia sine die. Ma se lo stile è l’uomo, allora un uomo è… la musica sua, e l’artista è il suo stile. Oggi molti copiano lo stesso approccio, ma Renato è diventato stilema in decenni di lavorìo artigianale, sui suoni, sulle soluzioni, sugli errori, sulle correzioni. E “Autoritratto”, in questo senso, è non un capolinea ma un traguardo.

Fluviale produttività, a volte dicemmo: esagerata, superflua cornucopia. Tutti quei brani, quei dischi, doppi, tripli. Ma, ancora una volta: chi può permettersi di sindacare le scelte, quel non voler tenersi dentro niente, quel pretendere di produrre a proprio estro, da uno che si è guadagnato il lusso di farsi azienda, di crearsi la sua etichetta discografica pur di non avere addosso più nessuno che gli rompa i coglioni? “Autoritratto” è musica matura, non seduce le mode, non cerca lo stupido stupore, non eccita la soggezione, non manipola, gioca alle sue condizioni, non ama l’amore immaturo e troppo facile, chiede ascolti ponderati, diremmo che se ne frega della classifica (anche se finirà primo una volta di più), è datata, cioè atemporale, cioè sfrontata nelle sue orchestrazioni (Adriano Pennino e il citato Alterisio Paoletti), nelle sue romanze popolari. E più non dimandare, che hai tutto quel che ti serve.

Anche quella paraculaggine lieve senza la quale Renato non è Zero: l’exit è affidato a un canto di Natale, Perennemente Bianco, e tu pensi però che furbastreria, fai un disco a tre settimane dalle Feste e lo chiudi così; subito dopo ascolti e ti ci perdi dentro, t’intenerisci, ti commuovi perché è talmente sincero il canto, è così intenso che… che ti scalda, ti scaglia all’incanto. Dentro ci affondi, e naufragar t’è dolce in quel Natale. No, più non dimandare. Che sei arrivato alla tua età, straziato dai danni e dai rimorsi, flebo, cannule e piangi a quando ragazzo scoppiavi di esistenza e c’era lì Renato, ma ti riscuoti, ti sistemi i tubicini e sai che ancora è qui e ti intona “Voglio cantarti ancora… vita… vita… vita!”.

Max Del Papa, 10 dicembre 2023

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