L’economia in fondo è una cosa semplice, proprio perché riguarda tutti noi, ma è stata resa una materia complicata. Per due motivi. Soprattutto.
1. Il primo è che di essa si sono impossessati gli economisti. Gli specialisti del cavillo, cioè della formula, della matematica, dei modelli. Parlano una lingua incomprensibile e ficcano la realtà in formule matematiche che con il passare del tempo perdono aderenza a ciò che vorrebbero descrivere. I mandarini dell’economia non solo non si comprendono, ma non si vogliono far comprendere. Diventano consiglieri del principe, dunque della politica a cui forniscono le anni e le munizioni per accrescerne il molo. La domanda, capovolta, che oggi gli economisti si pongono è come fare in modo che lo Stato permetta ai cittadini di vivere meglio.
Come possa contribuire a renderci più prosperi. È del tutto evidente che oggi il grande sforzo di ogni scienziato sociale dovrebbe essere esattamente speculare: come rendere più libera questa nostra società intrappolata dalle scelte pubbliche. In poche parole, come rendere meno ingombrante e meno prospero l’appa-rato burocratico che ci governa. Chi parlava semplice, disse una volta: come affamare la Bestia. Che è lo Stato.
2. Un secondo motivo per il quale l’economia è diventata molto più complicata è che, da Keynes in poi, essa è diventata macroeconomia. Non più economia dei singoli, ma degli aggregati. Non che questi ultimi non contino. Ma hanno dei limiti. Non solo nel paradosso di Samuelson per il quale un professore che si sposi la propria cuoca contribuisce alla riduzione del Pil, visto che si suppone si astenga dal pagare la neo-moglie per cucinare.
Il limite vero è che la macroeconomia ha distrutto la micro. La decisione sugli aggregati, la domanda, il consumo, ha spiazzato l’attenzione sui singoli operatori del sistema economico. Che insieme formano il complesso, ma che ragionano e si muovono per incentivi, molto individuali, e affatto aggregati.