I due forni possono anche funzionare, a patto che non si alzi la temperatura al punto da finire arrostiti. La diplomazia ambigua del governo Conte, sospeso tra Cina e Usa, se anziché discendere da un’accurata valutazione tattica, è figlia di mancanza di strategia, può rivelarsi una strada molto pericolosa per l’Italia. L’impressione è che, date le circostanze, non potremo tenere il piede in due staffe in eterno: prima o poi dovremo scegliere tra Washington e Pechino. Si virare verso Oriente, convinti che l’America sia una potenza in declino, destinata a uscire sconfitta dalla sfida con il Dragone. Ma non si può credere di temporeggiare, amoreggiando con l’uno e l’altro contendente, in attesa di salire sul carro del vincitore.
Il capitolo più importante di una vicenda destinata a cambiare la storia del Paese lo si sta scrivendo in questi giorni, con l’accelerazione sulla rete unica. L’esecutivo ha dato il via libera all’accordo tra Tim e Cassa depositi e prestiti: dovrebbe venir fuori una società in cui confluirebbero le infrastrutture di Open Fiber, partecipata da Enel e dalla stessa Cdp, alla quale spetterebbe il pallino della governance di un settore strategico come le telecomunicazioni. È interessante sottolineare un aspetto di un’operazione sulla quale i 5 stelle, incalzati da Beppe Grillo, avevano messo gli occhi da tempo: nella società FiberCop entrerà anche il fondo americano Kkr, che ha offerto 1,8 miliardi per acquistare il 35% del soggetto in cui confluirà la rete secondaria di Tim. Stiamo parlando di un’organizzazione di cui fanno parte personalità come David Petreus, già capo delle truppe Usa in Iraq, Afghanistan e Pakistan, nonché direttore della Cia. Henry Kravis, tra i creatori del fondo, fu contattato nel 2016 da Donald Trump, che lo voleva Segretario del Tesoro. È evidente, insomma, che Kkr non è semplicemente una sigla che riunisce ricchi investitori. È, anzi, un fondo d’investimenti dotato della facoltà di gestire partite geopoliticamente cruciali.
Non a caso, con Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno accresciuto la propria considerazione per il settore delle telecomunicazioni, avviando un duro braccio di ferro con i cinesi, a causa del loro progetto di penetrazione in Europa tramite le reti 5G. Non è un caso, a tal proposito, se gli alleati storici di Washington, i britannici, hanno chiuso a ogni ipotesi di approdo di Huawei nello sviluppo di questa tecnologia nel Regno Unito.
Bene: Roma, allora, parrebbe aver adottato lo stesso approccio di Londra. Consegnando agli americani una quota importante della società che gestirà la rete unica italiana, controllata dallo Stato attraverso Cdp, ha confermato il proprio allineamento lungo l’asse euroatlantico. Le cose, però, non sono così semplici.
In effetti, come ha rivelato La Verità, il 7 agosto scorso, Giuseppe Conte ha licenziato un Dpcm che autorizza Tim a utilizzare tecnologia 5G di Huawei, sia pur piazzando una serie di paletti. Proprio queste limitazioni hanno indotto alcuni osservatori a interpretare il decreto, che Palazzo Chigi ha preferito far passare in sordina, come un due di picche rifilato ai cinesi. Sarà: non si capisce come mai, allora, durante il cdm, due ministri dem, incluso il titolare della Difesa, Lorenzo Guerini, avessero manifestato una netta contrarietà all’intervento normativo. Tanto più che martedì scorso, a Roma, Luigi Di Maio è andato a stendere il tappeto al suo omologo, Wang Yi, pur ribadendo che sussistono delle condizioni precise che regolano l’ingresso del Dragone nelle nostre telecomunicazioni.