Ritorniamo ai principi di base riguardo al rapporto tra tasse e contribuenti. Un tempo le gabelle servivano per pagare i servizi comuni, il proprio stare in società. Poi abbiamo costruito una rete per i più deboli: tutti paghino perché anche chi non ha si possa permettere alcuni servizi essenziali. Infine si è innestato un terzo, il più odioso criterio: tassiamo per redistribuire il reddito.
Per la prima vota nel 1994 la coalizione di Silvio Berlusconi, grazie ai consigli di Antonio Martino, ruppe la tradizione catto-comunista. Le tasse non sono belle in sé, servono certo, ma si debbono dosare con cura. Oggi questo principio è diventato pervasivo da destra a sinistra. Nessuno si azzarderebbe più a dire che le tasse sono belle. Eppure le cose che non si dicono, spesso si fanno. Il caso più clamoroso è quello della recente riforma fiscale. Il parlamento e poi il governo ha varato una manovra di riduzione delle imposte sui redditi delle persone fisiche da 7 miliardi. Il Tesoro incassa circa 190-200 miliardi all’anno da questo tributo. Il che vuol dire una riduzione inferiore al 4 per cento. Meglio di niente. E soprattutto la commissione, guidata da Marattin ha lavorato bene nel ridurre il numero delle aliquote ed evitare alcune follie del passato. Non poteva far molto di più, viste le risorse a disposizione e la delega: ciò che ha fatto è buono.
Ma qui finiscono le notizie confortanti. Se i burocrati fiscali si mettessero qualche volta nei panni dei contribuenti e non sempre in quelli degli esattori capirebbero che siamo ancora in un inferno fiscale. E che la pressione non si è smorzata.
Il caso più eclatante è quello delle addizionali regionali. Alcune Regioni, colpevoli di aver fatto debiti come se non ci fosse un futuro, hanno avuto un abbuono sui loro passivi dallo Stato centrale, ma al contempo hanno avuto la facoltà di aumentare la loro quota di tasse prelevate dai contribuenti del proprio territorio. Sono percentuali che si sommano a quelle nazionali. Il caso campano è eclatante. Prendiamo un contribuente considerato ricco (e cioè che abbia un reddito di 75mila euro l’anno). Ebbene al 43 per cento di aliquota marginale che gli applica lo Stato centrale, De Luca e i suoi aggiungono un 3,3 per cento. A ciò si dovrebbe aggiungere anche il taglieggio del comune in cui si vive. Insomma il poveraccio, si fa per dire, quest’anno ogni cento euro guadagnati ne paga circa cinquanta in tasse. Poi ci sono contributi e tutto il resto. Da una parte i giornali gli dicono che c’è stata una riforma fiscale che gli ha ridotto il peso delle imposte dirette, dall’altra si troverà meno quattrini nelle sue tasche.