Cronaca

Rigivan e l’ironica disabilità: si può essere campioni senza vittimismo

L’atleta paralimpico tre volte record del mondo nella stessa gara. L’intervista cult e la farsa delle metro di Roma

Che ne sai tu di un campo di grano, poesia di quel lancio lontano, di quel disco oltre la malattia tu che ne sai. Allora te lo raccontiamo noi. È la storia (raccolta dal Fatto Quotidiano) di un atleta, con handicap, e per giunta nero, italiano dello Sri Lanka, Rigivan Ganeshamoorty, con questi nuova generazione il vero problema è questo, hanno di quei nomi… Per ora e per sempre, Rigivan e non ne parliamo più.

Venticinque anni e una sindrome di Guillan Barrè che sarebbe una polinevrite che ti mangia prima le gambe, poi le braccia. Che ne sai tu di sentirti formicolante, stanco la mattina e poi scoprirti andare incontro al nulla della paralisi, tu che ne sai. Chi scrive altri ne ha conosciuti, qualcuno addirittura giovane atleta; Rigivan ha seguito il percorso opposto, si scopre malato intorno ai 17 anni, si butta disperatamente nello sport, riemerge dal vuoto. E adesso a Parigi ha segnato per tre volte il record del mondo con altrettanti lanci che scagliavano il disco del dolore e della speranza oltre i 25 metri, poi oltre i 27. Non è una storia fantastica, una storia vera, una vera storia di sport? Rigivan ha delle cose da dire, però le dice in modo agile, senza scagliare, questa volta, facendole filare oltre la palude delle vanità, delle polemiche costruite per uno sponsor in più.

Italiano? Non italiano? «Vannacci non lo conosco, ma questa medaglia appartiene anche a lui. Italiano io, italiano lui. Se poi quelli come lui non mi accettano, non è un mio problema». Perfetto: non è un problema, non lo è per nessuno e, se proprio vogliamo dirla come va detta, non lo è neanche per Vannacci che su questa storia ci marcia fin dai tempi della candidatura, a mezzo manoscritto, e, siccome gli fa gioco, non smetterà mai. Vannacci non è diverso dalla Egonu con cui battibecca: stesso narcisismo stucchevole, stesso vittimismo strategico, stesso bisogno di far casino per restare nell’alone dei media. Ma tutto questo razzismo, Rigivan non lo vede o meglio se lo vede, se ne sbatte: a Dragona, dove si è formato da atleta e da uomo, “nessuno mi ha mai discriminato”.

E non c’è bisogno di inventarsi discriminazioni. Se mai, il razzismo quello vero sta nell’inerzia: il ragazzone, primatista del mondo nel disco alle Paralimpiadi, ha un appello: sacrosanto: “Vorrei gli ascensori e gli scivoli nella metro. La giunta Raggi qualcosa aveva fatto. Alla stazione di San Paolo Ostiense quelli come me sono perduti”. Uno è il primo del mondo in un’arena ma non può scivolare su e giù per una scala: mica solo a Roma, vedessi Milano cosa non è. Lo schifo, anzi peggio, perché gli scivoli, gli elevatori ci sono, ma puntualmente scassati o “fuori servizio”: che ne sai tu di una paralisi progressiva, venisse pure a chi li deve far funzionare gli ascensori, così vediamo se restano fuori servizio. Che uno li vede e pensa, ecco, questo qui è lo scandalo, è la discriminazione, questo è il razzismo che non ha colore, ha solo l’inerzia, il silenzio di uno strumento che ti guarda e non funziona, sta lì per bellezza, per dire vedi noi, che bravi che buoni che siamo, pensiamo a tutto, siamo inclusivi, piste di bici e ascensori dappertutto, solo che non funzionano, che peccato.

Ma perché, dannazione, ogni storia bella, rara storia bella in Italia deve finire sempre in farsa, in grottesco, nel suo contrario? Adesso Rigivan non è più un italiano, nero, disabile, atleta: è un campione del mondo e la sua parola pesa di più, è uno importante: speriamo serva, speriamo la sua voce possa arrivare ai sordi volontari. Che poi non si riesce a capire perché quello che per il resto del mondo è un punto di partenza, nella suddetta Italia deve sempre diventare un ambizioso traguardo. Da sognare. “Fuori servizio”. Qui di fuori servizio c’è tutto: la politica, l’amministrazione pubblica, la decenza, l’inclusione quella vera.

Però la storia di Rigivan è bella lo stesso. Ed è bello lui col suo faccione scuro, indiano, italiano, coi denti scintillanti quando ride, con la sua medagliona in cui si specchia. Col suo coraggio contro una malattia carogna. Ci sono ragazzini zombie che, siccome si sentono “un po’ fuori dal mondo”, per entrarci trucidano la famiglia; e ci sono giovani mascalzoni che, siccome “mi ha preso la voglia”, scannano la prima che trovano, “però le ho chiesto scusa”. E tutti giù a cercar di capire, per non capire, per legittimare, per sciacquarsi la coscienza nell’acqua insanguinata dell’ipocrisia. Poi c’è uno di 25 anni che quando sa non si alzerà più sulle sue gambe, si butta nello sport e diventa oro olimpico. Allora lo vedi che la via d’uscita c’è? Lo vedi che non c’è tanto da teorizzare, da spiegare, questi mostri, zombie, quello uomo, superuomo, inno alla volontà e al coraggio? Ecco, noi abbiamo bisogno di gente così. Un disperato bisogno ne abbiamo.

Giovani così, che non si perdono nelle sciocche polemiche, non vedono i fantasmi per diventare influencer, combattono e vincono. Italiani, non italiani, sempre italiani, e se il Vannacci non li vede somaticamente compatibili, beh, è proprio un problema suo (e, per favore, la smettesse di rompere le balle per la X volta).

Max Del Papa, 4 settembre 2024

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