I ristori e i sostegni, come si dice ora, sono l’oppio del lockdown. Ci spieghiamo meglio. Se il governo decide, per atto amministrativo o per legge, di chiudere la mia attività e di tenere a casa il mio cliente, sono morto. Se in emergenza ciò dovesse avvenire per pochi giorni, beh una forma di risarcimento è ipotizzabile. Sia perché la medicina in effetti potrebbe curare l’infezione prima che vada in cancrena, sia perché le dosi necessarie di farmaco sono alla portata di mano.
Se l’autorità pubblica espropria il mio terreno, è costretto ad indennizzarmi. E con il tempo e le sentenze, gli indennizzi sono diventati non solo simbolici. Ma se per costruire un’infrastruttura e per non rischiare di cambiare progetti, le autorità sequestrassero ettari ed ettari di terreno per stare larghi, in questo caso la storia cambierebbe.
Quando per un anno si blocca il mercato, solo un socialista ha la presunzione di risolvere la partita con una mancia di tipo economico. Il lavoro e l’impresa, come diceva Einaudi, non sono fatti di soli numeri. Sono anche quelli. Ma non c’è un’autorità che ha stabilito il numero di circhi presenti nel paese o la frequenza di un bar, non c’è un regolatore che ha pianificato il numero dei professionisti della comunicazione o quello degli organizzatori di eventi. Il mercato si autoregola. Finché c’è domanda c’è offerta. Anche se taluni economisti ritengono che il processo possa essere inverso. In questo senso se chiudi il mercato non c’è sostegno che tenga. Se togli ossigeno al paziente, non c’è medicina miracolosa che lo possa tenere in vita.
Se anche per ipotesi assurda (non avviene neanche nei paesi più generosi e tempestivi del nostro) si procedesse a restituire l’intero fatturato perso da un’attività, comunque la cosa non potrebbe durare a lungo e comunque non potrebbe risarcire tutta la filiera che dipende o è collegata a quell’attività. Se impongo la chiusura del birraio, dovrei risarcire i suoi fornitori, la catena di distribuzione e i produttori di materie prime. Come minimo. Ma il mercato non è un algoritmo. È la nostra vita, sono le nostre interrelazioni. Chi risarcirà mai, tutto ciò che sta intorno all’attività di un esercizio commerciale chiuso e chi, aggiungiamo noi, potrà mai immaginare la complessità dei lavori e dei redditi che vengono bloccati, inceppando solo una piccola rotella del meccanismo? Nessuno.
Certo i nostri politici hanno commesso errori di tutti i tipi. Hanno pensato di ingabbiare i risarcimenti nei codici fiscali (Ateco), hanno escluso i professionisti, e hanno adottato procedure burocratiche kafkiane. Ma anche quando hanno risolto gli errori più clamorosi (ultimo decreto di Draghi) si sono visti costretti a elargire piccole somme dei mancati fatturati.
La folle idea, che purtroppo ha contagiato anche alcuni esponenti del centro destra, che ci sia un “trade off” tra chiusure e ristori, è appunto folle. Non vi può essere nessuno scambio. Tre mesi di chiusura, non un anno, non sono risarcibili. Nel 2020 abbiamo aumentato l’indebitamento degli italiani per la bellezza di 500milioni di euro al giorno: una cifra mostruosa che non è servita a niente. Dal punto di vista macroeconomico il reddito è sceso di quasi dieci punti percentuali e dal punto di vista sociale abbiamo creato un milione di poveri assoluti in più.
Ci sono molti che ritengono necessari i lockdown (non chi scrive questa zuppa). Benissimo. Ma non credano alla balla che con ristori o sostegni si possa sanare il danno fatto ai ceti produttivi.
Nicola Porro, Il Giornale 27 marzo 2021