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Roma e il Rolex, in difesa del lusso - Seconda parte

Fu Mandeville, nella sua celebre Favola delle api, a rovesciare questo schema, chiedendosi se non fossero proprio quelle irrefrenabili passioni e quegli esecrabili vizi che, finalmente non repressi, non avessero finito per mettere le ali alla nostra civiltà. Essi avevano messo in moto un processo di creazione della ricchezza che in ultima analisi si era riversato su tutta la società rendendola non solo più ricca ma affinandone anche alla lunga il gusto. I vizi privati si erano convertiti in pubbliche virtù. E proprio ciò che essi sembravano egoisticamente mettere fra parentesi, lo stato di indigenza dei più, finiva per essere indirettamente ma sostanzialmente favorito dalla loro presenza. D’altronde, anche la solidarietà fra gli uomini può attuarsi solo se c’è una torta abbondante da spartire. La polemica sul lusso tenne banco per tutto il Settecento, e si risolse praticamente proprio nel senso voluto da Mandevile: la luxury, il life style, è diventato un modo di essere della borghesia occidentale, un segno distintivo della sua capacità di creare ricchezza e lavoro. Si pensi solo a quante persone dà lavoro la moda di qualità, l’alto lusso, in Italia. Ecco, allora, che se ancora oggi deploriamo il parvenu, il cafone che ostenta il lusso, che diventa così un lusso pacchiano, pur ci rendiamo conto dell’importanza anche della sua presenza nell’economia generale del reale.

Dopo tutto, proprio perché egli è un arrivato da poco, non ha avuto ancora modo di affinare il gusto: la pacchianeria è in qualche modo in lui naturale, spontanea. Molto più inautentico e moralmente esecrabile è il ricco con la puzza sotto il naso che ha casa a Capalbio e vive a Roma ai Parioli: equo, solidale, ipercorretto, a parole vicino ai deboli, in realtà è il volto nuovo dell’ipocrisia e dell’immoralità. Ha il portafoglio pieno, ma gli piace (e gli fa comodo) ostentare un cuore (che non ha) tutto proteso a sinistra.

Corrado Ocone, 5 settembre 2021

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