Parliamo dalla Romania. E facciamo senza ipocrisie. Perché quanto successo in un Paese democratico, membro dell’Unione Europea e della Nato, è qualcosa di davvero incredibile.
Qui c’è poco da fare filosofia: 19 milioni di rumeni hanno votato al primo turno un signore, Calin Georgescu, che forse “viene dal nulla”, come si dice, ma che comunque aveva un suo passato, una sua storia, incluso un lavoro all’Onu, e guida un suo partito nazionalista filo-russo. Certo: può non piacervi e di certo non è il nostro cup of tea. Però ha preso il 30% dei voti ed è assurdo che a pochi giorni dal ballottaggio, che lo avrebbe visto molto probabilmente vincitore, la Corte Costituzionale rumena decida di annullare tutto. Tanto più che la seconda classificata, Elena Lasconi, che avrebbe dovuto sfidare Georgescu e che in linea teorica avrebbe potuto far convogliare su di sé tutti i voti filo-Ue, è una signora liberal pro-Nato che ora con la ripetizione del voto potrebbe uscire dalla corsa in favore (guarda caso) del premier socialdemocratico uscente Marcel Ciolacu.
Oggi tutti sembrano fischiettare. Ma annullare le elezioni in un Paese democratico è una decisione gravissima. Come possiamo criticare altri Stati, vedi l’Ungheria di Orban o gli autocrati dell’Est, se poi non ci scandalizziamo che a Bucarest il voto venga annullato senza ancora aver trovato le prove dei presunti brogli?
Perché il punto è questo. Li hanno trovati, questi brogli? No, non ancora. La procura ha aperto un’inchiesta per corruzione di elettori, riciclaggio di denaro e falsificazione informatica. La polizia ha perquisito edifici a Bucarest, Ilfov, Timis, Maramures, Salas e Neamt. Stesso discorso in tre edifici di Brasov, in particolare nella villa e negli uffici di Bogdan Peschir, il magnate delle cryptovalute che avrebbe pagato con 1 milione euro una serie di influencer per “spingere” il candidato filo-russo su Tik Tok. Sarebbe lui la testa di ponte del Cremlino per favorire il fronte pro-Russia. La procura cerca la prova non solo degli “attacchi ibridi” stranieri durante la campagna elettorale, ma anche dei presunti “finanziamenti illeciti” in favore di Georgescu.
Ieri la Corte ha spiegato di essere intervenuta dopo aver avuto informazioni dai servizi segreti in merito a “frodi tali da modificare l’assegnazione del mandato presidenziale e l’ordine dei candidati che avrebbero potuto partecipare al secondo turno elettorale”. È successo? Può darsi, sia chiaro. Possono però due settimane di bombardamento su Tik Tok sconvolgere l’esito del voto? È tutto da dimostrare. Ma quel che è certo è che le elezioni sono state annullate sulla base di ipotesi tutte ancora da verificare. E che, come spesso accade nei processi, non solo in Italia, potrebbero anche dimostrarsi prive di fondamento. Non sarebbe stato più logico concludere il processo elettorale, indagare come da manuale e, in caso di prove certe e condanne varie, annullare ex post il risultato elettorale?
Quanto successo in Romania ha tutti i crismi del colpo di Stato, molto simile a quanto successo in Corea del Sud, e se non abbiamo il coraggio di dirlo siamo dei pavidi. Dobbiamo affermarlo per difendere un principio, più che il candidato che avrebbe dovuto vincere: se la democrazia europea finge di utilizzare degli strumenti dittatoriali ed ipocriti, a questo punto erano quasi meglio i golpe messi a segno dai militari.
Noi rompiamo le palle a Orban perché toglie qualche diritto ai suoi cittadini. Bene. E qual è il primo diritto di una democrazia se non che il voto degli elettori non può essere cancellato da una sentenza di una Corte Costituzionale qualsiasi? A meno che ovviamente ci siano dei brogli evidenti. Ma qui parliamo di un processo elettorale dove l’organizzazione era affidata al governo, dove i questori rispondono al governo, dove il ministro degli interni è del governo e annullano il risultato dopo che il candidato governativo viene escluso dal ballottaggio? Pensare che i grandi brogli di Putin siano arrivati grazie a Tik Tok, sinceramente, fa decisamente ridere.