Cultura, tv e spettacoli

Rosa Chemical scansate: Renato Zero, unica vera rockstar

L’artista romano torna col tour “Zero a Zero” dando una lezione a chi maldestramente cerca di imitarlo

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“Ti vivrò accanto, farò il viaggio insieme a te”: è stato di parola e ci è voluta una vita, come si fa a non voler bene a Renato Zero? Sì, d’accordo, certe incoerenze, certe scivolate in sagrestia, ma finisci per scontargliele perché sai che i suoi 50 anni di carriera sono mezzo secolo di vita spesa, fusa nella vita degli altri: nessuno come lui ha saputo, e nessuno potrà mai, rappresentare la doppia maschera, il tragico e il comico dei giorni comuni, dello squallore di vivere che si nobilità in uno sberleffo, disperato, insofferente. Sì che a buon diritto egli può scomunicare i pallidi maldestri epigoni: “Rosa Chemical, io non me la piglio con lui ma con chi lo manda lassù senza identità, senza preparazione”. Lassù per dire all’Ariston, davanti a dodici milioni di schermi accesi, dove i cloni si squagliano. Chi meglio di lui? Chi con altrettanti presupposti?

Altro che Rosa Chemical

Renato la trasgressione l’ha adottata: non nel mondo, ma è un fatto che non deve un cazzo a nessuno, i Lou Reed, i Bowie, gli altri del glam impazzavano e lui seguiva una traiettoria parallela ma del tutto autonoma: non fu il Piper di Alberigo Crocetta a inventarlo, se mai a scatenarlo ma la faccia tosta, l’ambizione, la paraculaggine, l’umiltà di assorbire, era tutta roba del suo sacco, punto e basta. Uno dopo l’altro alla fine si normalizzano, sempre, i soldi, l’età, le logiche d’impresa, il troppo successo, anche lui si è ripulito dal cerone, dai brillanti, ma mai del tutto: l’istinto è genetica, la storia artistica è personale, c’è sempre un cobra che dorme nel folle che, vestito da matto, diceva cose di buon senso e poi, da savio, vestito da savio, diceva cose anche demagogiche ma ogni tanto dirompenti ancora. E quelle zeppe non erano lì per caso e neppure per calcolo, erano sostanziali, finalizzate a ribadire una vita, oltre che una proposta certa, obiettivi precisi. Quando Loredana Bertè lo presenta a Panatta “e da una 500 impossibile scende ‘sto marziano, tutto d’argento, de stagnola, che ne so, al che mi volto e dico a Lori: “Ma chi cazzo m’hai portato? Poi siamo diventati subito amici perché era impossibile non volergli bene”. Questa la versione uncensored, raccolta da chi scrive. E questo è il senso di “Zero a Zero”, un altro tour per cantare di sé.

Renato è nietzchiano, un po’ al di là del bene e del male e col filosofo potrebbe dire: perché sono così Zero. Oggi trasgressivi ci nascono, così trasgressivi che partono subito con le società per azioni e il clan familiare, l’esercito di consulenti all’immagine, ai social, al buco del culo: lui davvero ha fatto tutto da solo, al posto di Gucci aveva la fantasia e gli abiti di scena li immaginava e poi se li cuciva. Oppure ricorreva alla sartina romana, chiudendo il cerchio arte e vita. Così sono nati tripudi di provocazione vera, preoccupante, sontuosi e straccioni, sempre e comunque geniali – quel ciuffo rosa da upupa sulla tutina che avvolgeva uno scheletro traboccante di vita, che mandava affanculo la voce arcigna di una falsa coscienza! Prediche e espiazioni, anima lacerata, Zero e Zero: ci ha messo una vita, una carriera a divincolarsi da un’educazione piccolo borghese, mai del tutto superata ma diremmo che è andata e gli va bene così. Con gli immancabili sensi di colpa da trasfomare in materiale, canzoni capaci di rispecchiare la normalità, lui che normale non ha saputo esserlo.

Zero, l’unica vera rockstar italiana

Disturbante lo era: con la voce, con la musica, con gli atteggiamenti. Chi non ci è cresciuto, in quei Settanta, non può capire ma i filmati di repertorio restano selvaggi, devastanti, Zero è stato davvero, per molto tempo, l’unica vera rockstar italiana. Capace di dissolversi nel dissoluto, di sparire dopo un concerto a bordo di chissà quale imprevisto, di invadere la vita di chi gli stava intorno – sono tutti ingombranti questi narcisi, anche nell’affetto, e poi di ritrovarsi nella retorica di una bettola, di una tavolata di adoranti cui mescere il vino. O magari nella pace di una chiesa desolata. O di portarsi il primo fan trovato per strada a negoziare un contratto. O di entrare alla Rai con la gallina al guinzaglio. O di esasperare l’impresario Aragozzini mettendogli le gambe stivalate ossute sul divano, “Cocco mi vuoi?”. Aragozzini lo cacciava, ma non avrebbe mai smesso di pentirsene.

Ha fatto tutto da solo, facendosi e disfandosi ogni giorno, ogni disco, ogni tour. Bisogna considerare che saliva dalla Roma papalina in un’Italia vaticana dove ogni eccesso pesava il doppio, dove Pasolini lo processavano per conto del Pci prima di farlo fuori, dove se il clown aveva una mente le porte si chiudevano: non s’è mai arreso, neanche tra le lacrime. È vero che il successo è arrivato presto, a 26 anni, con l’esplosione di Mi vendo, di Zerofobia: ma aveva già addosso dieci anni di gavetta sanguinosa e nessuno ha potuto contestarlo, perché davvero quello era il trionfo della volontà. E del talento. Dopo il successo, una crisi lunga dieci anni: non l’ha nascosta, ha cantato anche quella, ne è riemerso diverso come chi scopre che il pubblico non è quel mare di anime alla deriva ma di facce senza volto pronte a rinnegarti appena gli conviene. Non ha smesso di correre in soccorso, ecco uno di quei don Chisciotte che salgono sul destriero e partono “per tutte le direzioni”, ma le condizioni erano cambiate: se mi vuoi, sarai tu a cercarmi, a seguirmi.

L’hanno sottovalutato a lungo, ma aveva con sé il meglio, Ruggero Cini, il gruppo di turnisti della RCA, Piero Pintucci che mi dice: “Lui ci è nato, non poteva che diventare quello che era, ma gli è costato una fatica immensa perché non ha risparmiato niente di sè”. Quando il mainstream l’ha accettato, anche esagerando, lisciandoselo come poeta, coscienza collettiva, genio, lui era già altro, già sulla strada della normalizzazione, ma ha colto tutto come chi riscuote il dovuto e insieme con una sorta di disillusione non corriva, quasi affettuosa ma decisa: adesso ve ne accorgete, stronzi. La sua stagione migliore, che resta la prima, diciamo dal 1975 al 1980, fu una cornucopia di creatività, di canzoni da consegnare alla memoria, di scatti d’insofferenza anche sul palco: nessuno poteva dirgli cosa fare. Poi è difficile spiegare la differenza fra talento e l’istinto che ti rende unico: quando Rino Gaetano, con cui in RCA c’era un po’ di rivalità, va a Sanremo, 1978, lui gli regala un cilindro: con questo li stendi. Ancora se lo ricordano mentre canta Gianna scappellando.

I grandi successi zerofolli

Nel ’79 è già lanciato, porta in giro EroZero che forse resta il suo album migliore, il più completo, epitome di lui, ballate gigantesche come Il Carrozzone (scartata da una Gabriella Ferri che non si sentiva adatta), La Tua Idea, probabilmente il pezzo definitivo, una produzione meravigliosa, che incantava Lucio Dalla: “Che bel disco, Piero [Pintucci], avete fatto!”; ma non si accontenta, nel backstage di una trasmissione con Boncompagni scorge Dario Baldan Bembo, che è Baldan Bembo, ha suonato a lungo con Battisti, con tanti altri e lo investe con fare da rockstar romana: ah Pisè, quanno me fai ‘na canzone? L’altro esterrefatto, ma di lì a poco gli manda l’ossatura di Più Su e lui lo chiama alle due di mattina: “Fantastico, Pisè, un capolavoro”. Ci mette, che dico, ci scaglia, ci ricama sopra le parole ed ecco un altro di quei capolavori che non passano. A quel punto, snobbarlo diventò proprio complicato. Poi Baldan gli avrebbe scritto altra robetta, come Amico, per dire.

Non amato dal circoletto

Obiettavano i militanti dell’impegno barricadero da due accordi: ma sono canzoni facili, con armonie semplici, e dove sono i contenuti? Intendevano: non sei come noi, non alzi il pugno chiuso alla Festa dell’Unità. Fingevano di non sapere che la semplicità è un arrivo, ma quando Mario Vicari, in arte Caviri, detto Micio, gli confezionava Mi Vendo (scritta insieme in 20 minuti in una stanza d’albergo, dice la leggenda), Triangolo, Ancora Fuoco, Angeli, Baratto, con citazione verdiana, la complessità strutturale si liberava. E non volevano capire che a uno che già aveva parlato, per primo, di pedofilia, di disabilità, di carcere e di manicomi non gli potevi proprio venire a scassare le palle. Dava fastidio il modo, la libertà artistica, le cose le dico ma a modo mio e curo la musica e curo la veste, la scena, e danzo e recito perché so fare tutto questo, insomma creo una magia, perché un concerto, un disco, qualunque opera senza atmosfera è niente. Ma che lo facciamo a fare il canzoniere se ogni episodio è un documento di coscienza collettiva?

Sono passati i decenni, i grand tour, in un eterno ritorno dell’uguale mai del tutto uguale, non tutte le mosse furono azzeccate, non tutte le magie sono riuscite, il mercato è cambiato o meglio si è fagocitato, oggi con venticinquemila copie è già un trionfo, ai tempi un milione di dischi era obiettivo minimo, album come pretesti per lanciare i tour e i clic sui social, ma non per lui, che si è chiamato fuori in tempo, l’età lo aiuta, la statura di padre nobile lo salva, e quella retorica del fruttarolo, del pizzicagnolo, del citofono è ripetitiva, è eccessiva ma gliela si perdona perché infine coerente, un filo rosso di vita che non si spezzò mai. È la linfa per continuare e Renato torna ancora, di soldi non necessita, di essere nella gente ha un disperato bisogno, di pareggiare conti che non torneranno mai una fottuta curiosità: un altro giro, l’ennesima autocelebrazione, d’accordo, ma resta sempre un margine di specchio dove ritrovarsi e perdersi: per ciascuno. Con la tenerezza e la brutalità di chi è oltre il monumento e lo sa: la scorsa raffica di concerti, in autunno, tra gli ospiti c’era Fabrizio Moro, che si atteggia a figlio della borgata e fa il duro: non si impegnava e Renato è sbottato, gli ha fatto il cazziatone come a un figlio: “Ho imparato più in quelle due ore di prove che in tutta la carriera”, ha commentato il ragazzo, lievemente stravolto.

L’incanto esistenziale

Sono tanti ad essere maltrattati da questa rockstar atipica, che potrebbe atteggiarsi di più ma mantiene, almeno in questo, un curioso senso di misura, se non timidezza; attenti, come tutti i soli Zero può scaldare e bruciare, può illuminarti e subito dopo consegnarti al buio gelato del confronto. Ma chi lo accompagò in quelle stagioni arrembanti non si dà pace, sogna ancora un ultimo giro, forse perché lui è di quelli con l’incanto esistenziale, a stargli appresso si fatica, si ingoia qualche rospo ma ci si sente bene e non capisci perché. Non fino in fondo. Forse perché è uno dei pochi rimasti a saper vivere di sorprese ogni minuto, anche nel dolore e nella noia. Anche nell’incazzatura: “L’unico a non rispondermi è stato quello, il ragazzino, che ancora non sa che mestiere fa”. Poteva anche non chiamarlo, l’eterno giovanotto Cattelan, ormai stracotto, ma chi può sistemarlo così, con frase da rockstar che, ogni tanto, si ricorda di esserlo? Non sarebbe male che Renato, o Zero, o entrambi, a questo punto ricordassero ai cloni cosa sia la trasgressione vera, cosa voglia dire rompere i coglioni sul serio: nessun suggerimento, lui sa perfettamente come fare e cosa evitare, sa dove puntare e come svegliare un’altra volta quel cobra che dorme, un cobra buono, sì, ma non fatelo incazzare.

Max Del Papa, 22 febbraio 2023

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