Finalmente sembra che vi sia un giudice a Berlino anche per Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati sulla base di prove a dir poco labili per la strage di Erba, perpetrata l’11 dicembre del 2006. Si tratta a mio avviso di un colossale errore giudiziario che, ahinoi, rappresenta solo un anello della lunga catena di ingiustizie che, guarda caso, sembrano colpire in modo infallibile i malcapitati di turno quando, loro malgrado, hanno la sfortuna di finire sotto gli spietati riflettori dei media nazionali.
Come ho avuto modo più volte di scrivere, soprattutto chi segue l’informazione che si occupa di cronaca giudiziaria parte tendenzialmente da un presupposto colpevolista – della serie: se lo hanno indagato/incriminato vuol dire che qualcosa di grave deve aver commesso. Si tratta di un evidente retaggio culturale che affonda nella notte dei tempi, con il quale lo spettatore si sente rassicurato e gratificato nel vedere un colpevole – non il colpevole, si badi bene – sbattuto in prima pagina.
Da qui nasce e si sviluppa quella perversa interazione tra la pancia del Paese e gran parte dei mezzi d’informazione – quasi tutti tendenzialmente colpevolisti a prescindere – che contribuisce non poco alla genesi di parecchi, clamorosi errori giudiziari. Tutto ciò chiama in causa il concetto di giustizia teorematica, brillantemente coniato da Alessandro Meluzzi, il quale si è spesso pubblicamente scontrato con gli ortodossi del colpevolismo tout court e che, proprio per questo, al pari di altri – come l’ottimo Edoardo Montolli, autore insieme a Felice Manti del libro Il grande abbaglio: Controinchiesta sulla strage di Erba, ha pagato un duro prezzo sul piano professionale per le sue ragionevoli posizioni garantiste.
Ebbene, in un interessante capitolo del suo libro Crimini e mass media. Distorsioni e suggestioni di stampa e tv nei grandi casi di cronaca nera, Meluzzi scrive: “Nell’impossibilità di costruire un’ipotesi su dati empirici, tutti verificati e consolidati, ad un certo punto si forma un teorema. – in questo caso, aggiungiamo noi, il teorema è che Olindo e Rosa sono colpevoli -. A questo punto, continua il nostro esprimendo un passaggio fondamentale, “tutti gli elementi che confortano questo teorema saranno raccolti, evidenziati, valorizzati e sostenuti dalla procura e dai suoi consulenti. Invece tutti gli elementi che smentiscono il teorema precostituito saranno cancellati o negati.”
Tant’è che proprio nella vicenda in oggetto, ufficialmente per un errore commesso da un cancelliere, nel 2018 sono stati distrutti alcuni reperti, che non erano stati ammessi come prova nei vari gradi di giudizio, ma che la Cassazione, dopo un lungo iter, aveva concesso alla difesa di poter sottoporre ad una accurata analisi scientifica. Ma al di là delle enormi falle e lacune che hanno costellato fin dall’inizio questa inverosimile vicenda giudiziaria, oltre alla citata giustizia teorematica – che presuppone una conseguente visione ristretta da parte di chi indaga, portandolo a tralasciare qualunque altra possibile pista -, c’è un altro aspetto che va, a mio avviso, sottolineato. Mi riferisco al quel famoso ragionevole dubbio che in molti, troppi casi giudiziari sembra diventato da tempo una specie di chimera.
Ora, e non mi riferisco solo ai vari giudici che hanno di volta in volta esaminato e valutato le accuse alla coppia di imputati, si dai primi momenti sarebbero dovuti balzare agli occhi di giornalisti, opinionisti e spettatori/lettori alcuni incongruenze assolutamente eclatanti. Costoro, in particolare, avrebbero dovuto porsi alcune domande dirimenti:
1. come è stato possibile che, dopo una strage così cruenta, nessuna traccia di Olindo è Rosa sia stata rilevata nel luogo del crimine (mentre furono rinvenute innumerevoli tracce di soggetti rimasti sconosciuti) così come nessun reperto riconducibile alle vittime è stato trovato nella abitazione della coppia?
2. Quanto possiamo considerare attendibile – premesso che ci sono molteplici studi in merito alla scarsa affidabilità delle testimonianze oculari – l’unico testimone sopravvissuto alla strage, lo scomparso Mario Frigerio, il quale – come ampiamente dimostrato anche da una approfondita inchiesta di Antonino Monteleone per il programma Le Iene – per molti giorni ricordava un uomo sconosciuto, dalla carnagione olivastra e ben più alto di Olindo Romano, per poi – secondo la difesa a seguito di un falso ricordo indotto dagli inquirenti – accusare con certezza granitica quest’ultimo?
3. Infine, in base a quanto riportavano le cronache di quei giorni – elementi poi confermati da alcuni esperti che hanno trovato nelle confessioni, poi ritrattate, dei due imputati circa il 70% di errori –, possiamo ritenere veritiere le confessioni dei due malcapitati, terrorizzati solo all’idea di doversi separare, e che avrebbero ammesso qualunque cosa pur di poter passare la detenzione in una stessa cella (secondo una pia illusione partorita dalla mente di uno sconvolto Olindo Romano)?
Ebbene, tutto questo, che in sostanza rappresenta la struttura su cui sono stati condannati a vita questi due disgraziati, sarebbe più che sufficiente per far scaturire nella mente del più colpevolista ad oltranza quel ragionevole in dubio pro reo – e qui dubbi c’è ne sono a iosa anche per tutta un’altra, lunga serie di aspetti controversi che, per ragioni di spazio, abbiamo tralasciato – che, purtroppo, nei citrati processi mediatici continua a rappresentare un illustre sconosciuto, data la spasmodica e interessata fame di colpevoli da mettere costantemente alla gogna per mere ragioni di audience.
Claudio Romiti, 12 gennaio 2023