La giornata di ieri, 3 ottobre, è quella in cui si è aperto il processo per sequestro di persona a Matteo Salvini. L’ex ministro dell’Interno, nel luglio 2019, aveva tenuto per alcuni giorni distante dal porto la nave Gregoretti, della Guardia costiera, che aveva recuperato nella Sar maltese 131 migranti. A ben vedere, si tratta di un processo a un ex ministro della Repubblica che ha svolto un dovere costituzionale: difendere la patria e i suoi confini da chi non aveva alcun titolo per varcarli. A bordo della nave, ha infatti ricordato l’avvocato di Salvini, la senatrice leghista Giulia Bongiorno, era stata segnalata la presenza di un dispositivo Gps di solito utilizzato dagli scafisti. I quali, infatti, vennero trovati sull’imbarcazione e fermati dalla polizia.
Udienza preliminare
L’udienza preliminare è stata ricca di colpi di scena. A cominciare dalla decisione del Gup di convocare il premier, Giuseppe Conte, l’ex titolare del Mit, Danilo Toninelli e l’ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, il 20 ottobre e, successivamente, Luigi Di Maio (allora vicepresidente del Consiglio) e il successore di Salvini al Viminale, Luciana Lamorgese, il 4 dicembre. Il pm, invece, ha ribadito la richiesta di archiviazione per il capo della Lega, già presentata al Tribunale dei ministri, che però l’aveva respinta.
Ma ciò che colpisce maggiormente è come in uno Stato repubblicano, in cui la politica dovrebbe risolvere i problemi che più assillano la popolazione, come la sicurezza e la questione migratoria, la nostra “democrazia” abbia mandato a giudizio un ex ministro che, in accordo con il resto dell’esecutivo, ha messo in atto uno dei punti del programma politico della sua maggioranza. Vuol dire che la politica, risucchiata dai meccanismi giudiziari, ha fallito. Tanto più che gli alleati di governo dell’imputato, all’epoca dei fatti, appoggiavano in toto la linea di Salvini. Quella dell’ex titolare del Viminale, insomma, è stata una scelta politica che poteva piacere o non piacere, ma era legittima (oltre che effettuata sulla base di un chiaro mandato popolare). E la natura politica di quell’atto è confermata dalla richiesta di archiviazione da parte del pm al Gup di Catania.
Non solo: Giulia Buongiorno ha messo in difficoltà e in imbarazzo i giudici per una errata traduzione. Infatti il termine “until”, tradotto dal Tribunale dei Ministri come “immediatezza” e identificato quale prova dell’obbligo, imposto dalla normativa Ue, di garantire uno sbarco istantaneo, in realtà significa “fino a”. Pertanto, ha argomentato l’avvocato, “l’obbligo di sbarco immediato non esiste”.
Colpevole di…
Ma l’imputato come si dichiara? Colpevole. Sì, ma di aver fatto il ministro “in linea con il governo”. E con il suo presidente, quel Conte che ieri ha tagliato corto: “Ovviamente a disposizione, ci mancherebbe”, ha dichiarato commentando la sua convocazione in aula. Forse sta proprio nel coinvolgimento del premier e di altri quattro tra attuali ed ex ministri, a rendere l’idea del perché, tutto sommato, questo processo faccia paura anche ai nemici del Carroccio. È vero che l’eliminazione per via giudiziaria dell’avversario (quello che va attaccato anche se ha ragione, come diceva Luca Palamara nelle chat con i colleghi magistrati) è un grande classico della sinistra. Ma è vero pure che, se si andasse fino in fondo alla questione, emergerebbe necessariamente la collegialità dell’operato dell’esecutivo nella scelta di serrare i porti.