Dopo il 1989 gli intellettuali comunisti si impegnarono nel genere “dimenticare Berlinguer”. Alla fine non ci sono riusciti, visto che, a parte Renzi, tutti i segretari del Pd, e soprattutto Zingaretti, sono stati nipotini di Enrico. E adesso dovremmo accollarcelo noi conservatori? No, merci. Per quanto non sia contrario ai pastiche di tradizioni politiche diverse o ad incursioni corsare, spiazzanti gli avversari, direi che la memoria del segretario comunista va lasciata da parte. Anche perché quella sinistra che noi combattiamo ne è la coerente erede: e quindi non avrebbe molto senso contrapporsi a qualcuno mentre si dice di ispirarsi alla memoria del suo maestro.
Prima di tutto però pensiamo esisterebbe un elemento di Enrico Berlinguer che il centrodestra potrebbe recuperare, ed è quell’elemento pessimistico soprattutto dell’ultimo. In particolare nella relazione al Congresso del Pci del 1983, Berlinguer aveva colto gli elementi di disgregazione dietro al mito della modernità e del cambiamento, di cui si fece paladino Bettino Craxi. Noi allora stavamo con Bettino, anche se ragazzi, e in quel momento aveva ragione il segretario socialista, ma oggi, con il senno di poi, il “conservatorismo” di Berlinguer, cioè la difesa della comunità, della tradizione, dell’antropologia umana contro le derive di quelle che egli chiamava il capitalismo, possono essere guardate con interesse anche da un conservatore politico. Del resto, era quel tratto di Berlinguer che gli veniva dall’incontro con l’importante filosofico cattolico Franco Rodano. Che era comunista ma in quanto cattolico e nulla aveva a che vedere con la cosiddetta sinistra democristiana, dossettiana, tecnocratica e anti nazionale, incarnata da Beniamino Andreatta.
Ma questo è quanto. Su tutto il resto, Berlinguer è non solo da dimenticare, ma da combattere. E non serve dire che Lega e Fdi oggi sono partiti eredi dell’elettorato operaio. Oltre a ricordare che gli operai votavano pure Psi, Democrazia cristiana e pure Msi, la sociologia degli elettori non incide cosi meccanicamente sulla identità delle culture politiche. Marine Le Pen ha ereditato il voto del Pcf ma non per questo cita Georges Marchais, Boris Johnson in parte l’elettorato laburista popolare ma non per questo apprezza Clement Attle, Donald Trump quello blue collar senza che ritenga John Mc Govern qualcuno a cui ispirarsi.
Dicevo Berlinguer il vero ispiratore del Pd. E spiego in che senso:
1) Assieme alla cultura pessimistico conservatrice cattolica rodaniana, su Berlinguer fece comunque sempre premio il progressismo marxista, ottimista e storicista. Lo stesso che oggi è del Pd, marxismo (forse) a parte. Per i progressisti il futuro è sempre migliore del presente che è sempre migliore del passato: e le magnifiche sorti e progressive muovono la storia. Tutto l’opposto di una visione conservatrice del mondo.
2) Come colsero bene Augusto del Noce e Gianni Baget Bozzo già negli anni Settanta, il Pci di Berlinguer si stava trasformando in un “partito radicale di massa”, tutto rivendicazione dei diritti, delle diversità, delle minoranze. Da caro Enrico alla legge Zan Scalfarotto contro l’omofobia è un attimo. Per Del Noce, la presa d’atto del fallimento del comunismo, già evidente negli anni Settanta, non poteva che spostare il messianismo della “liberazione dell’uomo” verso l’adesione a un progressismo dei diritti: appunto al suicidio della rivoluzione.