Sanremo, Ferragni oscena: offre il peggio del moralisticamente corretto

La prima serata del Festival è un condensato di brutte canzoni e pessimi cantanti. Conditi da Mattarella, Benigni e Ferragni

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chiara ferragni sanremo

C’è Anna Oxa che si è spianata, a 62 anni pare una giovane promessa, un avatar (di Patty Pravo). Verrà Ornella Vanoni che di anni ne vede 90 e ogni volta dice che è l’ultima, che si è rotta le balle, ma poi c’è anche Gino, con cui eccedeva nell’estasi 60 anni fa e allora come si fa a resistere. Sanremo all’insegna della gerontocrazia più spietata, come usa in tutte le maggiori istituzioni: i giovani giovani, quelli anagrafici, possono attendere, possono, per il momento, contentarsi di essere lì, che comunque non è poco: 50mila di premio assicurato a prescindere dal piazzamento e la garanzia di serate, tour, passaggi televisivi e radiofonici, quella che si chiama “visibilità” anche se effimera, anche se la loro vita programmata è di una stagione, massimo due. Ma che volete? Kronos si è fatto più famelico e non ha tempo per allevare un carisma, del resto tutti questi tananai tikitok o rosa chemical ne hanno poco e, parafrasando il poeta marxista Aldo Nove, la rivoluzione del loro talento si direbbe passi per il buco del culo. Roba deperibile. Uno come Ultimo, oltre a non saper cantare, a 25 anni è esangue, pare il nonno di se stesso. Ma, vi piaccia o no, siamo dentro al festival e bisogna ballare. E allora veniamo all’essenza.

Da Elodie a Ferragni

C’è una delle divette, la Elodie allergica a Giorgia Meloni, che annuncia l’obiettivo, speriamo circoscritto al festival: “Voglio essere puttana dall’inizio alla fine”. Questione di impegnarsi un po’, senza strafare, si spera. La sua mamma creola ha appena “murato” la capricciosa Egonu, una che quanto a supponenza se la batte con sua figlia, con parole di borgata, cioè parlandole di “bianchi, neri e poco cotti”; sarà difficile che Elodie, guadalupegna del Quartaccio, possa giocarsi la stessa carta del razzismo sbarcando in riviera con la scorta e uno staff da fare invidia a Cleopatra; non a Chiara Ferragni che, da super manager del nulla, come la racconta Mascheroni sul Giornale, ha fatto engelsianamente della quantità la qualità, da cui un codazzo di servi esagerato ma coreografico, dunque strategico.

Tanto sfarzo frana miseramente sulla scena, con un monologo di infantile egocentrismo, e fuori di scena, letteralmente osceno se vogliamo scomodare Carmelo Bene, se c’è da rispondere a una domanda sul marito che scrive canzoni sulle donne al guinzaglio mentre lei pretende di difenderle. Manichinale e manicomiale in quel delirio onanistico, recitato con pathos contabile, lacrime cinesi comprese. Mentre assisto, imbarazzato io per lei, quasi sgomento, mi arriva un messaggio: “La Ferragni è pazza?”. Parliamo della pazzia alienata e alienante dei dittatori in delirio di onnipotenza. She Is Crazy, ma è il gioco ipocrita del festival cui non si sottrae il nostro presidente, ubiquo quanto Zelensky: forse le foto con i Ferragnez al gran premio erano più propedeutiche che innocenti.

Ed eccoci alla funzione di questo Sanremo che rileva come avanguardia-retroguardia del pensiero unico moralisticamente corretto, cinghia di trasmissione con l’Unione europea che vuol girare la testa agli europei come predicano i vari Timmermann, Schwaab e Ursula. Diciamo un ambasciatore televisivo, spettacolare del progressismo revisionista che ha definitivamente rinunziato a qualsivoglia velleità canterina, artistica per abbracciare la causa post occidentalista dell’agenda gender e green. Di questo si parla, giocoforza, più che delle baggianate selfistiche di apprendisti o vecchie glorie.

L’ossessione del fluido a Sanremo

Ecco Amadeus, più istituzionale che mai, istituzione egli stesso, anche nel cordoglio tragico, gran ciambellano dell’effiimero pesante e del patriottismo trash con l’inno nazionale recitato dal manone, Morandi, per puro servilismo presidenziale. Verrà Rosa il Chimico, cantante en travesti con sotto il travestimento, temiamo, niente, ma già i Coma Cose, insulsi già dal nome, e via via il resto di una compagnia poco cantante ma molto fluidificante. E qui si coglie un metasignficato, una tensione diremmo generazionale: gli ultrasenatori, i Morandi, Ranieri, Al Bano, Pooh redivivi a stento, perfino Pelù, il più corroso di tutti, sopportano poco e male la bagarre con quelli che, a buon diritto, considerano degli avventizi, degli animali incomprensibili. Li tollerano perché questo è loro richiesto, perché a Sanremo bene o male ci sono venuti sia per quei favori che non si possono rifiutare sia per i calcoli tipici della quarta età artistica. Ma ci si muovono a disagio e si vede, hanno quella degnazione vagamente offesa anche se si prestano, malvolentieri. Ma senza creare rogne, la loro polemica è tutta di ordito artistico, adesso tocca a noi e vi mostriamo cosa è una intonazione, una interpretazione, ammesso che la voce non tradisca e che il fisico non ceda clamorosamente in corso d’opera. Chi non ha problemi di tenuta fisica, ma di quella mentale ne tradisce fin troppa, sono i giovani cantanti lampadario le cui movenze e apparenze a forza di adeguarsi ai dettami del genderismo spinto risultano paradossali e suggeriscono degli strazianti molluschi conciati a festa. Ma che altro ti puoi inventare dopo i reggicalze del Damiano, già usurati dopo mezzo secolo di citazionismo? E dopo il ridicolo, c’è il patetico.

Un business da 50 milioni

Ma tutto questo fa bene agli affari, in quella ineffabile miscela di capitalismo dirigista che è la Rai: sfondato il tetto dei 50 milioni di introiti pubblicitari, a fronte dei 18 di spese complessive, più 30 di indotto che nessuno sa bene cosa sia atteso che la pubblicità copre anche le cacche dei cani, e aspettative di pubblico sui 13 milioni, due in più dell’anno scorso. Tutto per seguire una gara fittizia tra giovanetti negati e cariatidi. Il liberismo autoritario funziona: noi vi diamo gli eccessi di cartone, voi non avrete altro dio. E tutti sono contenti anche se quest’anno Mediaset non si è piegata al gentlemen agreement e ha schierato la “controprogrammazione attiva”, per dire sfidare il nemico sul suo stesso terreno nella battaglia decisiva. E c’è da scommettere che, comunque vada, la corazzata de Filippi manterrà parecchi dei suoi aficionados, tanto più che i suoi format, da Amici a C’è Posta, hanno indiscutibilmente condizionato il festival, segnandone il gusto, costringendolo ad adeguarsi quanto a stilemi. Un preciso segnale di Berlusconi a una dirigenza Rai all’epilogo o un monito per quella, presumibilmente targata Fratelli d’Italia, che verrà?

Sanremo: un fatto politico

Comunque anche da queste cose si capisce che Sanremo è un fatto politico prima che legato allo spettacolo. O, se preferite, che lo spettacolo è in funzione della politica e non l’inverso. A sancire l’istituzionalità somma, niente meno che il capo dello stato, come alla Scala. Che altro serve? Laddove Benigni, in curioso odore di Costituzione, della quale ha una concezione immatura ma capziosa, reazionaria, da “guai alle riforme”, serve, come la serva di Totò, a corroborare il qualunquismo giullaresco, da suddito ilare vuoi verso il potere istituzionale, vuoi verso il potere di Lucio Presta, uno dei padreterni della televisione pubblica, lo stesso di Amadeus. Lui e il diretto concorrente Caschetto vengono entrambi dalle ceneri del PCI, uno renziano l’altro cigiellino, e si disputano quel campo di Agramente dei poteri forti che è Sanremo.

Mai vista tanta mediocrità

Il resto è contorno come lo sono i reduci di se stessi, da Paola e Chiara ai Cugini di Campagna che si offendono se il figlio di D’Alessio non gli bacia gli zatteroni. E qui c’è poco da dire, la sfilata di questi artisti o spremuti o destinati ad appassire senza fioritura è modesta fino all’imbarazzo e alla mortificazione. Non un momento di interesse, non un fremito se non di insofferenza per la volgarità dello stalento diffuso, per la fissità inquietante della Ferragni con la sua vocetta a tassametro o per quel pleonasmo vivente che è Fiorello detto “Ciuri”, al quale Amadeus detto Ama non sa e non vuole rinunciare, basta che ci sia, anche solo per un peto, al che tutti, subito: che genio, che prodigio, che peto celestiale. Meglio degli obbrobri in gara senz’altro. Chi si costringe le dodici, le quindici ore fuori dal teatro in attesa di tanta mediocrità non è tenuto, ma se uno appena conosce la musica, se ha masticato nozioni elementari di armonia e di melodia, di canto, di presenza scenica, non può che arrendersi alla desolazione: chi sono questi sordi, malaticci, cerei, tinti, belanti, genderizzati ma dall’aspetto terminale? Qual è il loro senso, come ci sono arrivati su quelle tavole?

Ancora per il substrato politicante. La ragazzina Ariete ricorda la classica disadattata da ultimo banco, ma è lesbica e anche lei odia la Meloni, insomma può servire alla causa globalista: abile e arruolata, come la diretta concorrente Madame che è un’altra coi suoi bei problemi di adattamento e si vede. Ma, in definitiva, sono tutti uno il clone dell’altro, almeno nella fascia per così dire emergente, alternativa, a cosa non si è mai capito.

Il caso Zelensky a Sanremo

L’altro aspetto politico, macroscopico, addirittura eclatante, è la presenza assenza di Zelensky. Che c’entra?, si erano chiesti in tanti e fra loro il capo della televisione concorrente, Piersilvio Berlusconi. Una domanda sensata, ma in Rai tutti a cascare dalle nubi, come direbbe Checco Zalone, tutti ad ostentare le spallucce e i sorrisi di circostanza, pareva che senza il presidente ucraino il Festival perdesse di consistenza e di prospettiva. Mentre era l’opposto. Alla fine si è trovata la situazione all’italiana ossia cialtronesca: niente Zelensky, neanche in collegamento, al suo posto un messaggio letto da Amadeus. Peggio che peggio, ma è il modo più comodo, anche se ridicolo, di esercitare quella censura preventiva che a parole sdegnava tutti. Si vede che il presidente influencer voleva davvero reclamare altre armi, altri soldi con la scusa della pace. Oppure, più miseramente, c’era da boicottare Bruno Vespa, ufficiale di collegamento fra Roma e Kiev il cui potere in Rai si va facendo troppo ingombrante.

Se non è politica questa! E qui in questa settimana la praticano e la respirano tutti, volenti o nolenti. Ma vogliono. Tutto in transumanza, a vedere e a farsi vedere, a intrallazzare, a svaccarsi, a esibire ciò che non si ha, a inciuciare con amici e nemici. È la forza di Sanremo, una faccenda maledettamente politica, per dire del potere che, se non ne fai parte o almeno se non gli graviti attorno, ti ignora più che estrometterti. E se sei estromesso sei morto.

Un lettore di questo sito mi chiede: ma come si spiega ogni febbraio la migrazione, da anguille verso il mar dei Sargassi, per la Riviera ligure di saltimbanchi e guitti? Proprio perché tali, proprio perché il Festival rappresenta le colonne d’Ercole dove si intrecciano opportunismi, disperazioni, ambizioni che passano per il gioco puttanesco dello show business, della politique d’abord, delle istituzioni televisive e non solo. Voi potete anche illudervi non seguendo Sanremo ma Sanremo, come il grande occhio, segue voi. Se i telegiornali aprono con Sanremo, poi passano a riferire del terremoto in Turchia e Siria, “seimila palazzi crollati, diecimila vittime, ma torniamo a Sanremo”, vuoi o non vuoi ci state dentro a questa assurdità normalizzata, a questo trionfo della noia efferata, estenuante, senza vergogna che si dissimula dietro la Costituzione. Stando così le cose, conviene saperne quel minimo per non farsi condizionare più di tanto e a tal proposito, se vi pare, seguite almeno queste colonne in cui si prova, non senza pena, a tracciare i fili, che son tanti, e ad unirli in una trama alla lunga comprensibile.

Max Del Papa, 8 febbraio 2023

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