Mentre il maxi-filone di Novara è ancora in piena istruttoria dibattimentale, quello di Napoli si avvia a chiusura: mercoledì scorso, i pubblici ministeri Giuliana Giuliano e Anna Frasca hanno chiesto la condanna di Schmidheiny a 23 anni e 11 mesi di reclusione. Per loro, «era ben consapevole della correlazione tra l’inalazione delle fibre di amianto e le malattie asbesto-correlate», ma «nonostante avesse questa cognizione» non se ne curò per «perseguire al massimo il profitto».
E poco importa se:
- come sostiene la difesa, all’epoca dei fatti (anni Settanta e Ottanta) non vi fosse piena concordanza scientifica sugli effetti dell’amianto;
- se appena insediato al timone di Eternit Schmidheiny organizzò un congresso con i dirigenti per pianificare una energica «lotta contro la polvere nelle aziende» concludendo che «è importante che ora subentri un cambiamento nell’atteggiamento e nella mentalità di tutti i collaboratori, ma soprattutto di tutte le più alte dirigenze nell’ambito dell’azienda, è importante cioè che la tutela del lavoro e dell’ambiente diventi cosa ovvia come lo sono le norme di produzione e le norme di qualità»;
- se fu grazie a Schmidheiny che si passò dalla lavorazione a secco a quella a umido;
- se Eternit investì costantemente negli stabilimenti italiani;
- se gli standard di sicurezza in Eternit sotto Schmidheiny fossero superiori a quelli mediamente presenti nelle altre fabbriche;
- se le nostre conoscenze sul mesotelioma sono ancora troppo poche per ritenere assolutamente certi gli studi epidemiologici;
- se vi fu un grande assente – lo Stato italiano – nella regolamentazione del settore dell’amianto messo al bando solo nel 1992.
Quella di “Mr. Eternit” in questa novella Norimberga si profila come una vicenda ancora tormentata e comunque, nella sua affannosa ricerca della colpevolezza ad ogni costo, tutta italiana.