Cronaca

Sara Giudice passa all’attacco: “Sono io la vittima”. E vuole addirittura le scuse

Dopo il MeToo muore anche il principio di “vittimizzazione secondaria”. L’ex inviata di La7: “C’è un video nel quale…”

Nello Trocchia e Sara Giudice

La strategia appare chiara: giocare d’attacco, schierando però la donna, non l’uomo, sia mai che qualcuno possa tacciarti di sessismo. Il caso di Sara Giudice e Nello Trocchia, una volta esploso sui giornali, è sui giornali che si consuma. Anche se, forse, prima di tanto parlare occorrerebbe attendere la pronuncia del Gip sulla richiesta di archiviazione del pm per l’accusa di violenza sessuale.

Ieri in una inusuale intervista condiscendente di Selvaggia Lucarelli, Sara Giudice aveva di fatto ucciso il MeToo. O meglio: ci aveva fatto capire, finalmente, che un’accusa di abuso sessuale non si trasforma automaticamente in un abuso reale. Bisogna indagarlo. Occorre capire. Distinguere se si sia trattato di “pentimento” per essersi concessi, di una “crisi di conformismo” dopo effusioni saffiche, oppure di una vera violenza. Insomma: il “no means no” sempre e comunque lascia il posto ad un arcobaleno di sfumature. La percezione di abuso va contestualizzata. Dopo anni di giustizialismo sessuale, bene così.

Se ieri è stato il MeToo a crollare sotto i colpi delle interviste dell’accusata, oggi a rimetterci le penne è il concetto di “vittimizzazione secondaria”. Ricordate? Citiamo Elly Schlein, per non apparire di parte, quando accusava Ignazio La Russa: “Tante donne non denunciano per paura di non essere credute”. Cioè: la loro versione viene messa in dubbio prima ancora che possa svolgersi il processo. “Affermare, senza alcun elemento, ‘non ti credo’, – precisa Repubblica – è una forma di vittimizzazione secondaria”. E ancora: si scade in questa “seconda aggressione” quando la presunta vittima viene colpevolizzata “al punto da ritenerla parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto” tanto che alla fine “le donne non denunciano perché hanno paura di non essere credute, di non essere protette e di subire il linciaggio sociale”. Chiaro?

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Con questo principio in testa, da sempre cavallo di battaglia del giustizialismo sessuale di stampo MeToo, andiamo a leggere l’intervista della Giudice al Corriere della Sera. Che la presunta vittima non venga creduta dai denunciati è ovvio, forse anche logico. Altrimenti rinuncerebbero a difendersi. Ma da qui ad accusarla pubblicamente di “calunnia”, di aver “costruito scientemente una bugia” e sentirsi dunque “vittima di una controstoria”, beh: ce ne passa. L’ex inviata di Corrado Formigli racconta del silenzio in cui era caduta la collega dopo quelle effusioni in taxi. Narra di sms finiti nel nulla. E di una telefonata senza risposta. Un silenzio definito “sintomo di un atteggiamento passivo-aggressivo” dalla Giudice che non si fa problemi a considerare “violento” il mutismo messaggistico chi – vero o falso che sia – ritiene di essere stata abusata. Non scade tutto questo un tantino in quella famosa “vittimizzazione secondaria” di cui sopra?

Altro giro, altra corsa. Ricordiamo che la denunciante sostiene di essersi “sentita una marionetta” mentre, seduta tra i due colleghi, diventava oggetto delle loro attenzioni. Vero? Falso? Sarà il giudice a stabilirlo. Ma se occorre evitare “vittimizzazione secondaria”, forse non è il massimo spiattellare ai quattro venti che “l’ho vista sorridere, parlare, scambiarci battute” o raccontare di un “video nella quale, scesa dal taxi, sembra assolutamente presente a se stessa”. Anche perché dubitiamo che la diretta interessata abbia la voglia, e forse il coraggio, di rilasciare simili interviste per spiegare le sue ragioni, costretta come sarebbe a rivivere quelli che lei considera momenti di violenza. No?

Dal punto di vista giudiziario, poi, non resta che attendere. A dicembre è prevista l’udienza e il Gip dovrà decidere se dare seguito alla richiesta di archiviazione del pm o se assecondare l’opposizione della denunciante. La quale contesta sia il mancato ricorso alle regole del Codice Rosso durante le indagini (non è mai stata sentita su quanto accaduto), sia le contro-analisi sulle urine per stabilire se fosse stata davvero drogata o meno. Molto, infatti, si giocherà sullo stato psicofisico della ragazza. Era presente a se stessa? Il famoso video di cui parla Sara Giudice viene interpretato diversamente dalle parti in causa. C’è chi ritiene che confermi l’alterazione alcolica, il che aggraverebbe la posizione degli indagati; e chi invece la consapevolezza delle “effusioni condivise” da parte della presunta vittima che sarebbe stata “al gioco” salvo poi “pentirsene”. Anche la testimonianza del tassista si presta ad interpretazione: l’accusa sottolinea il passaggio in cui l’uomo racconta di aver visto la ragazza “scossa” perché “non si aspettava una cosa del genere”; la difesa invece fa leva sul fatto che l’autista non avrebbe considerato la scena rischiosa altrimenti sarebbe intervenuto.