L’ultimo saluto a David Sassoli ha costruito una simbologia politica di cui non c’era bisogno. Non ne aveva bisogno il ricordo del presidente del Parlamento europeo, che ha vissuto una vita di impegno e di successo, sia professionale prima sia politico dopo; personale e familiare sempre, visto l’affettuoso ricordo della moglie e dei figli. Non ne aveva bisogno la sua parte politica. Non ne aveva bisogno il Paese, alle prese con una congiuntura che attraversa le incertezze della pandemia e l’instabilità di un panorama politico impegnato a risolvere il rebus del Quirinale.
Il rito diventato spettacolo
Ne avevano bisogno, forse, le Istituzioni, che devono testimoniare la loro affidabilità e vitalità, attraverso l’esempio di chi le serve con dedizione e intelligenza, come Sassoli. Ma alle Istituzioni spetta il dovere della sobrietà, per evitare la tentazione del regime. La messa in scena cui abbiamo assistito ha invece preso una deriva tutta “social”, con tutta la volgarità che sa produrre l’uso maleducato dei mezzi di comunicazione. Il rito è diventato uno spettacolo, spesso sguaiato, quando ha tracimato nelle piattaforme social “grazie” al vizietto del post, per assicurare al politico di turno il certificato dell’”io c’ero”.
Lo strumento è stato il selfie. La stessa modalità che ha reso insopportabile la “bestia” della Lega, capace di immortalare il suo leader tra la spiaggia e la cucina, con un bicchiere di mojito o con una felpa o una mascherina griffate nelle diverse articolazioni del sovranismo. Matteo Salvini è diventato “antipatico” anche per questa voglia di onnipresenza sconsiderata, tra un balletto su TikTok e un video in mutande su Facebook. Le Istituzioni, come dicevamo, hanno bisogno d’altro. E gli uomini delle Istituzioni devono sapersi rappresentare in altro modo.
L’esercito (sinistro) del selfie
Eppure, la stessa tentazione socializzante di Salvini ha contagiato tutti i leader (ma anche i peones) di partito che hanno voluto fare e pubblicare il loro selfie accanto al feretro di David Sassoli. Uno spettacolo indegno prima che inopportuno. Era inevitabile la presenza di telecamere e fotografi, la sovraesposizione mediatica funziona anche così, ma voler dare testimonianza della propria presenza sui profili social è qualcosa di insensato. Una follia che ha accomunato i leader, come Enrico Letta o Giuseppe Conte, agli esponenti sgomitanti di partito, come Laura Boldrini, Monica Cirinnà o Esterino Montino.
La democrazia dei “like” ha generato mostri
Rincuora un po’ la reazione dei surfisti del web e dei social. “Potevi portare un semplice saluto senza il fotografo al seguito. Neanche il rispetto dei morti. Che miseria” è stato scritto a commento del selfie di Conte. Oppure, uno scandalizzato commento: “Che bisogno c’è della sua foto davanti al feretro? Poi rosicate se vi dicono opportunisti che schifo”. E ancora, una sorta di rimprovero: “Raga, basta co ste foto. Non siete ad un concerto”. E un auspicio, tardivo: “Non hanno un amico che li fermi prima di pubblicare?”. Evidentemente no.
Dopo tante prediche sull’anti-politica, sul web antagonista e anti-istituzionale abbiamo assistito a una esibizione che giustifica e promuove la distanza tra Paese reale e Istituzioni, proprio quando queste provano a blandire gli istinti peggiori di quello. La democrazia dei “like” ha generato mostri e ha trasformato in mostri anche coloro che dichiaravano di voler rifondare il rapporto tra cittadini e politica. Una pagina che speriamo si chiuda presto e per sempre, ma che temiamo sia solo un’altra tappa dell’imbarbarimento di questo Paese.
Antonio Mastrapasqua, 19 gennaio 2022