Speciale zuppa di Porro internazionale. Grazie a un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri.
“Aux armes, citoyens” molti giornali europei dal “Financial Times” al “Corriere della Sera” denunciano il pericolo di una vittoria di Marine Le Pen al secondo turno delle presidenziali francesi, che si terrà domenica 24 aprile.
Fino a qualche mese fa si temeva, in certi ambienti, solo una possibile affermazione della candidata gollista Valérie Pécresse. Questa figlia di un dirigente di una società di Vincent Bolloré (il “New York Times” del 7 aprile sottolinea il ruolo di questo imprenditore bretone in queste presidenziali), mentre E’ric Zemmour (assai appoggiato dai media bolloreiani) indeboliva la Le Pen, si pensava avrebbe potuto arrivare al secondo turno da posizioni di forza contendendo l’Eliseo al punto di riferimento di ampi settori della finanza (e dei suoi media di riferimento) stufi della noiosa contrapposizione tra destra e sinistra, e interessati all’estendersi di un potere tecnocratico.
Invece la Pécresse si è praticamente suicidata politicamente e la Le Pen quasi sicuramente arriverà al secondo turno. Ma la speranza che la disciplina “repubblicana” (cioè il convergere di gollisti e socialisti contro qualsiasi forza considerata anti-sistema) oggi è parzialmente scossa. Innanzi tutto perché la cura Macron ha portato, secondo gli ultimi sondaggi, i gollisti all’8,5 e i socialisti al 2,1. E tutto ciò mentre la presidente del Rassemblement National sta conquistando uno spazio imprevisto.
Molti dei media mainstream sostengono che questi risultati, Marine li raggiunge perché si fa vedere spesso con foto di gatti. Sono gli stessi media “combattenti” che spiegano come Victor Orban abbia vinto le elezioni perché controlla la televisione.
In realtà la possibilità di una sorpresa il 24 aprile (secondo il “Financial Times” i sondaggi darebbero oggi al secondo turno Emmanuel Macron al 53,3 per cento e la sfidante al 46,7 per cento) poggia su fattori più complessi: lo scontento di una parte rilevante della popolazione (secondo un sondaggio pubblicato da “Le Figaro” del 7 aprile, il 21 per cento degli elettori dei Verdi, dei socialisti e della estrema sinistra – al momento secondo le indagini demoscopiche circa il 30 per cento – voterebbe per il Rn, mentre quasi il 50 per cento si asterrebbe); ci sarebbe poi la spaccatura così rilevante in Francia – e decisiva anche in Ungheria ben più della televisione – tra città e campagna.
E poi qualcuno inizia a intravedere anche una rottura nell’establishment che va oltre allo schierarsi di Bolloré.
Chi esamina le ultime elezioni presidenziali nota come “il fattore scandalo” sia stato spesso decisivo: così un François Hollande fotografato mentre si reca dalla sua ultima amante Julie Gayet, con il casco, in una vespa guidata da un uomo dei servizi. Così Nicolas Sarkozy, il cui ritorno sulle scene dopo essere stato battuto da Hollande, venne bloccato dall’accusa di una sua circonvenzione d’incapace realizzata verso Lilliane Bettencourt, socio di controllo della Oreal. Così François Fillon affondato da uno scandalo centrato sulla moglie scelta come assistente parlamentare.
Certo, il caso ha sempre un grande perso nelle vicende umane, certo, a Parigi c’è una stampa vivace e capace di assestare duri colpi ai potenti come nel caso del Canard enchainé.
Però è difficile non dare ascolto a un protagonista della recente storia francese come Laurent Wauquiez, successore di Fillon alla testa dei gollisti (oggi Les Républicains) che in una riunione a porte chiuse, venne registrato mentre diceva che contro Fillon si era scatenata una “cellule de démolition” composta da servizi dello Stato, media e staff macroniano.
È interessante ricordare tutto questo background sulle elezioni presidenziali precedenti, perché mentre tutti si aspettavano qualche scandalo contro la Le Pen, ne è invece cresciuto man mano uno contro Macron. Dapprima vi sono stati un po’ di rumori sul ruolo ambiguo di una società multinazionale di consulenza strategica (la McKinsey) che avrebbe avuto un ruolo rilevante poco chiaro nella campagna presidenziale del 2017 (tra l’altro qualche “populista” ha ricordato il peso di Victor Fabius direttore associato della McKinsey e figlio di quel Lurent, già ministro socialista che poi ha scelto l’avventura né di destra né di sinistra macroniana).