La faccenda è molto semplice e non ha a che fare con le elezioni, con i segretari di partito o con le bizzarre scemenze di Saviano, Michela Murgia o Laura Boldrini: la sinistra, perdendo sempre, perdendo tutto, ha vinto. Ha fallito nell’ideologia, nel consenso popolare, ma ha saputo tessere una tela di ragno che non lascia fuori niente e che, piano piano, avvelena tutto. Ha saputo imporre una religione senza dio, e c’è il recente saggio di Chantal Delsol, “La fine della cristianità”, e c’è l’altro saggio di Ryszard Legutko, “The demon in democracy”, da studiare insieme: allora si comprende bene che la sinistra postmarxista ha saputo rilanciarsi capovolgendo i valori della cultura cattolica in antivalori pop.
La religione senza Sacro ha sostituito il vecchio Dio coi feticci buoni per ogni causa, il gender, il migrantismo, il climatismo. Ce l’ha fatta grazie al combinato disposto di un Occidente indotto al suicidio (Federico Rampini), dove la sottocultura di sinistra ha fatto sistema mentre lo snobismo intellettuale di destra non ha saputo mai unirsi, si è ripiegato in posizioni di rifiuto e di aulico vittimismo, di nostalgismo anche patetico; e di un pubblico sottosviluppato, intellettualmente minorato non perché non legga Kant in tedesco, ma perché viziato dalla democrazia populista, stordito dalle cose senza importanza, incline alle palette e alle provocazioni vacue di una Lucarelli, agli strepiti di un Lele Adani, al gossip come ragione di vita, ecco un altro dio minore che la sinistra ha saputo prontamente adottare.
Cose risapute? Sì, certo, ma per le quali evidentemente le repetita non juvant. E va così. Un passo alla volta. Oggi è il turno, peschiamo da la Stampa, dell’abolizione dei numeri romani dalle vie delle città: trovata allucinante, ma forse più allucinogena, che risale ad un decreto ministeriale del 2016, roba che lì per lì nessuno se ne accorse, dispersa nel pandemonio di ben altre pressioni, la woke, la cancel, il politically correct. Ma un passo alla volta: oggi torna fuori, per lo sconcerto, isolato, di un sindaco trentaduenne, Diego Mele, primo cittadino di un borgo del torinese, Borgone di Susa. Si è chiesto ed ha chiesto, esterrefatto, il sindaco: ma che è, ‘sta storia? Gli ha risposto un ufficio Istat della sua regione: è così e basta. I numeri romani “inducono confusione nella gente”, insomma non sarebbero inclusivi (“La decisione è stata presa per andare incontro ai cittadini stranieri e di bassa scolarizzazione”). Poi, figurati, li aveva “inventati” Benito Mussolini. Quindi da oggi in poi non sarà più “via XX Settembre” ma “via Venti Settembre”: una modifica prima operativa solo a livello di registri digitali, poi anche fisicamente: nuovi cartelli per strada, nuove carte di identità per i residenti. Non solo: le vie vanno rivedute e corrette, non più via Alberoni ma via “degli” Alberoni, il che, oltretutto, è strampalato in cinquanta sfumature di toponomastica.
Ma che gli fa? Si coglie chiaro l’intento di venire incontro ai migranti, di facilitargli la vita, anche se non si capisce come, anche se è la facilitazione apparecchiata dai burocrati che non semplifica un beato cazzo, che è tutta fanatica: se davvero volessero, potrebbero cominciare a disboscare quella foresta virtuale nella foresta reale, cresciuta a boschi di Spid, di procedure telematiche, di app istituzionali, di codici, tutta una vegetazione velenosa che non ha sostituito ma raddoppiato adempimenti anche psicotici. Eppure è così, come diceva quella gag: via “degli Alberoni”, via Quattro Novembre, e tutta una trama di indicazioni manicomiali quanto ad apostrofi, asterischi, roba evidentemente fascista anche quella. Non inclusiva.
Il sindaco del borgo piemontese ha provato a protestare, con le armi del ragionamento: gli è stato risposto che “l’integrazione è cultura”, formula che non ha senso ma ormai l’occidente si ammazza intossicandosi di formule prive di senso. “Che ora è?” “Giovedì”. Come quando sgamano una famiglia africana che in Italia ha incassato 63 milioni di euro e la risposta è: vi accanite perché sono di colore. È la risposta dei folli, ma vincono i folli, nell’acquiescenza generale perché ormai siamo stanchi di fare a cappellate coi passeri, che tra l’altro passeri non sono perché, venendo dallo stato, sono se mai avvoltoi. E la spuntano.
Un passo alla volta. Si è cominciato dal linguaggio, proibite le parole belle, romantiche, zingaro, negro, perché non piacevano alla madama Boldrini, alla Carta di Roma ispirata da Soros. Proibita la storia, tutti neri da Batman all’uomo delle Nevi, con conseguente riscrittura di opere liriche, lungometraggi, fumetti, documentari, romanzi. Si è passati alla ridefinizione dei valori, la famiglia “di merda”, come diceva quella ex parlamentare col cane milionario, gli uomini che possono, devono restare incinti, le studentesse delle quali devi indovinare l’uzzolo anagrafico nell’ora di lezione, perché adesso Maria Rosa si sente Francesco, alla terza ora forse si preferirà Margherita, alla quinta Ellie, che, notoriamente, è “non binaria”, cioè una che non si compromette e per questo è adatta a guidare il Pd.
Se un insegnante si rifà alla carta d’identità, è spacciato; se una docente universitaria sostiene che la donna partorisce, è scacciata. Finché il cerchio si chiude e si torna al lemma, alle parole, però in modo più aggressivo, più violento: toponomastica cambiata “in tutta Italia”. Chi l’ha deciso? Non si sa, non c’è un responsabile, c’è una forza, c’è il senso della storia di cui parlavano i marxisti, c’è la religione senza dio, dai mille feticci che si giustificano di per sé.
Chi obietta è perduto. Chi si ostina a restare razionale è fottuto. Con i dovuti cortocircuiti democratici, come quella coppia di giovani gay che mi son trovato di fronte in treno, sullo snob provinciale, non è che provocassero, ma facevano di tutto di tutto per attirare l’attenzione, forse sperando di suscitare una reazione da sfruttare pubblicamente. Finché è arrivato il controllore e ha detto: ma questi non sono i vostri posti. No, ma volevamo restare insieme. Ed è scoppiato un puttanaio di spostamenti che ha paralizzato l’intera carrozza. Tutti zitti, se solo qualcuno avesse protestato, “ma insomma, potevate stare al vostro posto”, si può star sicuri che ci sarebbe scappata la autovittimizzazione social e mediatica.
Che ora è? Giovedì, l’elefante vola e intanto miagola. Ma lo si può ancora dire? Che senso può ancora avere questo mestiere di raccontare se parole, opere e omissioni sono senza corpo? Sono stato di recente a un paio di incontri letterari nell’orbita di Comunione e Liberazione: tanti discorsi edificanti, solita curiosa apologia del don Giussani che è un po’ il Confucio dei cattolici tradizionalisti, c’era anche un vescovo, ma nessuno che abbia detto che se negli ultimi trenta mesi abbiamo vissuto in un incubo totalitario, si è dovuto anche alla complicità di una Chiesa fellona, del tutto sodale del regime. Solo oggi, mesi dopo la dipartita di Speranza, la Cei si è decisa a ripristinare acquasantiere e segni della Pace, sia pure tra mille gesuitiche cautele: a che è servito, “scambiarsi un segno di pace” con occhiate da maniaci dietro le mascherine? Ma c’erano da riverire Draghi, Mattarella e il ministro fobico.
La Chiesa è stata la prima a prostituirsi alla nouvelle vague progressista, ha sostituito il Dio cristiano, il Gesù mite ma all’occorrenza ribelle, coi feticci di stato: tutti sbagliati, tutti inutili e micidiali. Finito il convegno mi allungo proustianamente fino al mio quartiere, Lambrate, periferia est, e trovo la cappellina miracolosamente accesa la cappellina dove sono cresciuto pregando per le mie mille angosce di bambino e poi di ragazzo: trenta e passa anni che ci riandavo, ed era sempre così addormentata, così desolatamente morta. Invece stasera filtra una luce: scendo le scale, entro, quasi tremante, come ritrovando un amore mai finito, ed ecco la Maestà murata, il mosaico bizantino della Madre col Bambino, mi guardano come allora, quel misto di tenerezza amorevole e un po’ severa.
Vorrei raccontare tutto di questi quarant’anni, come don Camillo che ritrovava il suo Cristo di legno, ma mi riscuote una voce bassa e ostile: qui non puoi stare con le scarpe, se vuoi restare togliti le scarpe. Eh già, la chiesina è lastricata di tappeti e l’altare inaccessibile, sbarrato da pesanti tendaggi, il Crocifisso cui mi votavo chissà se è dietro, chissà se c’è ancora. Allora capisco. Devono averla sconsacrata e ceduta a islamici che ne fanno una moschea. Non protesto, non provo a spiegare che quella cappellina è un po’ casa mia, casa della mia anima: i padroni adesso sono loro, e legittimamente. Cosa dovrei dire? Mi contento di essere stato forse chiamato per l’ultima volta da quella Maestà e risalgo le scale. Un po’ più morto di prima.
Un passo alla volta. Una chiesa può diventare moschea, ma una moschea non potrà mai tornare chiesa. Un passo alla volta. Ha detto l’Istat al sindaco Mele: “Lei può pensarla come vuole, ma alla fine, che lo voglia o no, anche lei farà quello che è stato deciso”. Chi, chi l’ha deciso? Non si sa, ma terribile è il Golem dell’inclusione, senza intelligenza, senza intelletto, ma la cui forza spaventosa non conosce ostacoli, né ricordi, né rimorsi, né pietà.
Max Del Papa, 5 dicembre 2022